Miracolo a Milano/12 Ratanà e la bellezza del risotto con ossobuco
“Ossobuco con risotto o Risotto con l’ossobuco?”
“Eh??”
“No, dico – è l’ossobuco che funge da supporto e condimento e rinforzo al riso, misera graminacea senz’arte né parte, costretto ad accompagnarsi a pezzi di carne, a piccioni, e quant’altro, e addirittura a scomodare il nobilissimo zafferano per darsi una patina dorata di regalità? O è il risotto che accoglie accanto a sé l’ossobuco, prestandosi a una convivenza fra entità ben distinte che pure possono essere complementari l’una all’altra, esaltandosi a vicenda in una gara per stabilire chi è più buono?”
Totò sempre più spesso mi preoccupa – posso dirlo? Lo sproloquio nasce di fronte al menu del Ratanà – delizioso locale in una palazzina d’inizio Novecento, in mezzo a un giardinetto pubblico, a sua volta in mezzo (ok, di lato) ai grattacieli che stanno sorgendo nell’area ex-Varesine/Garibaldi, belli alti pieni di finestre di vetri luccicanti – e stanno venendo su anche i palazzi-giardino verticale, e più in là il nuovo palazzo della Regione, e il vecchio Pirellone che guarda da lontano, e davanti le case popolari dell’Isola, quartiere un tempo malfamato…
Il legame con Milano, con la vecchia Milano, è fortissimo: da un lato, l’edificio faceva parte della prima stazione ferroviaria della città, e questo aspetto viene richiamato nei materiali dell’interno (pavimenti in rovere, arredi in metallo fiammato color grigio antracite); dall’altro, il nome “Ratanà” è quello popolare di don Giuseppe Gervasini, “el pret de Ratanà” (cioè di Retenate, paese di cui fu parroco, sempre nel milanese), prete “alternativo”, dai modi bruschi e dall’aspetto scarmigliato, diventato popolarissimo nella Milano d’inizio Novecento (morirà nel 1941) per le sue doti di guaritore quasi santone (aveva acquisito conoscenze mediche durante il servizio militare in Sanità, e le utilizzava per curare gratuitamente i poveri: da qui la fama di “guaritore”).
“L’è vera – fa subito Totò – anche quando me ne sono andato da Milano, sessant’anni fa, era ancora popolarissimo… La nonna Adalgisa se lo ricordava benissimo: a una sua cugina aveva detto…”
Lasciando Totò ai suoi ricordi, veniamo al locale: bello e accogliente, ci capitiamo per caso, indecisi fra l’aperitivo e la cena. Tutto prenotato, ma se mangiamo e liberiamo il tavolo entro le nove e mezza… Mangeremo e libereremo il tavolo entro le nove e mezza.
La nostra scelta quindi è veloce: un piatto, un dolce, e via.
Il menu è legato alla tradizione milanese, ma ovviamente aperto al moderno. Qualche esempio – Terrina di cardi gobbi, patate e Salva cremasco; Tagliolini al Montebore profumati ai peperoni dolci; Busecca alla milanese (trippa); Risotto (alla milanese, alle rape rosse…); Carciofi al forno con mozzarella di bufala; Cotechino nostrano con aceto tradizionale di Modena e patate schiacciate…
“Su su, veloce: io prendo Ossobuco con risotto alla milanese.” Segue lo sproloquio di cui sopra.
Anch’io; e una Tartare di fassone profumata al limone interdonato, con un bicchiere di Etna Rosso, su consiglio di Christian. Sulla Tartare non ho molto da dire, il limone le dà quel quid in più – come dice Christian: “la tartare di fassone con limone interdonato (presidio slowfood) ha una morbidezza e un sapore incredibili grazie alla grattugiata di buccia di limone interdonato e a un ottimo olio monocultivar umbro”.
E il risotto con ossobuco o ossobuco con risotto? Lo chef Cesare Battisti ha una fama, meritata, di splendido confezionatore di risotti (oltre che di attento selezionatore di materie prime – non per niente ha dato vita anche all’Erba Brusca con Alice Delcourt, caratterizzato dalla presenza di un orto ad uso del locale…): avevo già assaggiato al Milano Food&Wine il suo Riso con latte di capra (crudo, leggermente acidificato), grana padano, vaniglia, pepe nero e carciofi croccanti, e anche lì, in piedi col cucchiaio di carta e il piatto di carta, ero rimasto incantato. Non posso che confermare – anche questo alla milanese è uno degli ottimi, per gusto cottura sapidità e tutto.
“Un miracolo…”
Sì, decisamente. La ricerca mia e di Totò continua, per carità – altri termini di paragone, altre esperienze – ma questo vale decisamente la pena di essere assaggiato – “Ma che assaggiato: mangiato, altro che!”.
Una Bonarda Staffolo di Antea (Rocca de’ Giorgi, Pavia) ha accompagnato il risottino – confesso che ne avremmo preso un altro, se avessimo avuto il tempo – magari senza ossobuco, per il piacere di averlo lì giallo splendente nel piatto…
Dolci: abbiamo preso due mousse (quella ai tre cioccolati equosolidali solo discreta).
Dobbiamo tornare e approfondire, ovviamente: anche perché ci sono altri aspetti da scoprire, al di là dei piatti (“Magari incontriamo Antonio Albanese, so che è uno dei soci del locale, amico dello chef, andavano insieme a pescare e hanno pensato di aprire il locale insieme…”): come gli sconti ai devoti del Pret de Ratanà (basta rispondere a qualche domanda in merito – “Posso raccontare la storia della nonna Adalgisa, che raccontava che sua cugina…”), ai ciclisti metropolitani che arrivano con la loro bici, ai pescatori a mosca (passione dello chef Battisti) che presentano la licenza di pesca (“E se mi presento vestito da pescatore, con un bel branzino di pescheria attaccato all’amo?” – no, guarda, vista la presenza nel menu di salmerini e lavarelli, penso si parli di pesce di fiume – “Un branzino in visita alla zia carpa…?”), o (la settimana scorsa) i “Detentori di pasta madre casalinga: mostrare foto davanti al frigo e consegnare pagnotta autoprodotta con farine biologiche”.
Interessante.
(Emanuele Bonati, Christian Sarti)
Foto: rgastudio