Tutta colpa del caciocavallo: disoccupazione, mammà e spot Conad
L’hanno definito sessista, razzista, retrogrado, antieuropeista, umiliante, socialmente ingiusto, campanilista, e la lista potrebbe continuare. Sul web, da Lettera 43 a L’Inkiesta, il corto firmato da Gabriele Salvatores per Conad ha scatenato una valanga di polemiche, perché ha toccato tasti abbastanza dolenti nel nostro paese, e li ha trattati come dei cliché, con una leggerezza che è apparsa giustamente fuori luogo a chi certi problemi li vive sulla propria pelle, ma che va anche presa per quello che è, una pubblicità che fa leva sull’emotività della famiglia, della tradizione, del Natale, che in Italia è sentita eccome.
Il suo fine è vendere un prodotto, sul ‘come’ ci sono varie scuole di pensiero, che attengono al neuromarketing e alla sociologia dei consumi.
Mi ha colpito però che le critiche si siano concentrate sul ruolo della madre; personalmente ho notato per prima cosa l’accenno alla disoccupazione giovanile: la telefonata che arriva al di là di ogni speranza, il 24 dicembre, nemmeno il direttore del personale fosse Babbo Natale che recapita sotto l’albero il regalo più desiderato: un lavoro dignitoso e stabile. Ovviamente altrove rispetto alla propria città, ovviamente da prendere al volo senza pensarci tanto – che di regali come questi oggi non se ne vedono – e pazienza se a casa c’è una famiglia, una fidanzata, gli amici e una vita personale e affettiva. L’Istat ha pubblicato statistiche sull’emigrazione italiana verso paesi nordeuropei abbastanza inquietanti, circa 285mila partenze nel 2017, paragonabili a quelle della grande emigrazione del Dopoguerra, e che sono comunque inferiori alle cifre dei lavoratori italiani accolti diffuse dai paesi di destinazione (Germania, Regno Unito, Scandinavia in primis). A questo, si aggiunga il dato Inps secondo cui l’età dell’italiano emigrato va dai 25 ai 44 anni, e l’indignazione si affaccia al cuore e alla coscienza.
Poi il caciocavallo della discordia, che nessuna madre italiana sana di mente – che ancora lava e stira le camicie di tutta la famiglia, con buona pace dei progressisti – metterebbe nella stessa valigia con la biancheria e per di più contatto con gli abiti. L‘insulto sessista semmai sarebbe prendere sul serio una scena come questa, evidentemente sopra le righe per sottolineare lo stile chioccia dell’italica mammà. E sfido chiunque a telefonare a casa in un qualsiasi giorno dell’anno, non necessariamente a Natale, e non dover rispondere all’inevitabile domanda “stai mangiando?”
Perché poi scandalizzarsi se l’idea di partire per chissà dove e per chissà quanto crei l’ansia da distacco: il modo più semplice di portarsi dietro qualcosa è mangiarlo, e quando si è lontani il desiderio dei sapori di casa, soprattutto con l’avvicinarsi dei periodi dedicati alle tradizioni famigliari, si fa sentire eccome. Partire e scoprire nuovi paesi non implica dimenticarsi dei vecchi, e oggi per fortuna troviamo cibo italiano di qualità un po’ ovunque.
Personalmente ho trovato più inquietante la carta prepagata, gettata lì al posto del caciocavallo, bello bianco, tondo e morbido, accompagnata dall’unica battuta del padre “puoi trovare le nostre cose”: nostre di chi? di Conad o italiane? Del Nord, del Sud? E’ asettica, inorganica, inodore, non occupa troppo spazio e non dà fastidio, ma non sa di italiano più di una qualsiasi American Express. Sarebbe questa la società del futuro?
Ma poco importa: è il servizio di una catena di supermercati il soggetto del racconto, non la nostra cultura o i nostri difetti. Se lo spot di Salvatores funzioni o meno lo diranno le vendite della Conad, cui auguro comunque di seguire il trend delle specialità alimentari protagoniste del nostro export, che secondo Coldiretti, ha segnato un +3% nel 2018 rispetto al 2017, con 42 miliardi di euro di fatturato. Valigia o no, il caciocavallo tira…
[Link: L’Inkiesta, Lettera 43]