Eataly Roma come il salotto di Porta a Porta con il ministro Bray e gli chef
Antefatto. C’è un sottosegretario ai Beni Culturali, Ilaria Borletti Buitoni, che se ne esce con un’affermazione (piuttosto) infelice. Giudica negativamente la cucina degli chef italiani. La frase del j’accuse è questa: “In Italia s’è smesso da tempo di mangiar bene, purtroppo. Siamo corsi dietro alle mode, ai francesi, allontanandoci dalla nostra idea di cucina”. Gli chef, sollecitati, rispondono all’esponente di governo che prima ritratta parzialmente e poi torna completamente sui suoi passi pungolata anche dal Ministro De Girolamo che la invita a pranzo. Oggi, il ministro dei Beni, delle attività culturali e del turismo, Massimo Bray ha partecipato al convegno dal titolo “In Italia si mangia male? Non è vero! L’importanza della cultura del cibo all’epoca della crisi” organizzato da Oscar Farinetti, sempre pronto sul pezzo, e moderato da Paolo Marchi per ricucire lo strappo. Luogo dell’incontro, Eataly Roma.
Dopo la burrasca sembra sia tornato il sereno e gli chef si sono fatti in quattro per spiegare al ministro che così non va e che l’Italia ha bisogno del comparto gastronomico per migliorare le performance economiche. Oscar Farinetti ha la prima proposta che fa seguito al tweet che ha lanciato ancor prima che iniziasse il convegno (“I cuochi sono ambasciatori dell’eccellenza italiana”) e la espone al ministro: Portare il numero dei turisti stranieri in Italia dagli attuali 47,5 milioni a 120 milioni in sei anni. Un obiettivo che, tradotto nei tempi limitati dell’attuale governo, viene anche rimodulato in ”7 milioni di turisti in più in sei mesi”.
E gli chef si fanno sotto, uno a uno, per essere sicuri che finalmente qualcuno ascolti le loro parole.
Davide Scabin sottolinea l’importanza di discernere chi può entrare nell’ambito imprenditoriale da chi vuole restare nell’ambito artigianale in modo da poter tutelare tutti in modo adeguato e proteggere i grandi prodotti italiani. “Contingentare le piccole produzioni per le esportazioni, fare in modo che ci sia il bisogno di venire in Italia per assaggiare certe specialità. Correre all’esportazione rischia di diventare pericoloso, rischiamo di perdere il grande prodotto”. Come i grandi chef francesi che gestiscono molti ristoranti non possono dirsi artigiani, anche Scabin vuole essere trattato come S.p.A., e ripropone la sua idea di una struttura simil parlamentare, che si prenda delle responsabilità condensando e classificando le caratteristiche dell’immagine italiana da portare all’estero. “A proposito di marketing, abbiamo un esubero di nonne in Italia. Non sappiamo mai cos’è il vero. Eliminiamo un po’ di nonne, mettiamone una per regione che ci dica quali sono i piatti tipici e come si fanno. Raccogliamo le ricette e esportiamole. In Italia abbiamo troppo e dobbiamo ricodificare la nostra immagine all’estero per poterne rivendicare il valore”.
Altro punto scottante, la formazione: istituiti alberghieri, università gastronomiche, difficoltà di accogliere stage e poter dar modo ai giovani di imparare sul campo. Questione che sta particolarmente a cuore a Cristina Bowerman, che in prima persona ha studiato all’estero arti culinarie, insegna tutt’ora e soffre la mancanza di indirizzi e organizzazione in Italia. “Il cibo va tutelato perché è un’espressione culturale, non solo perché abbiamo dei prodotti straordinari, ma perché è una fonte di reddito, come dimostra il turismo enogastronomico. Mi è capitato di insegnare negli istituti alberghieri e il programma ha diminuito ancor più le ore di pratica, oltre a non fornire un’istruzione adeguata come nei corsi universitari dove ho studiato”.
La cultura ti alza la voce. Ma c’è bisogno di umiltà che sembra un po’ perdersi nel mito di entrare a far parte dell’Olimpo dei grandi chef. Lo sottolinea Heinz Beck, tristellato, tedesco ma con il cuore italiano, per sua stessa ammissione. “I cuochi che arrivano non conoscono le materie prime e non le vogliono imparare, non conoscono le tecniche e vogliono subito imporsi come i nuovi Guru. Fare ristorazione significa sudore, devi avere il nero sotto le unghie”. In più le norme non aiutano: i costi per i dipendenti sono esorbitanti. In Inghilterra sulla stessa busta paga ho il 30 % in meno di costi. Se non ci si può permettere il personale la qualità si abbassa.
Appello alle istituzioni quello degli chef, per poter mettere in condizione gli operatori del settore di accogliere chi ci viene a trovare, come si evince dalle parole di Massimo Bottura.”Devono creare delle reti intersettoriali tra ristorazione, produttori, alberghi, musei, perché ognuno di noi è ambasciatore del proprio territorio nel mondo, e le istituzioni devono metterci in condizione di dare il meglio”.
Stessa posizione quella di Moreno Cedroni che si trova d’accordo con la Buitoni se il riferimento del sottosegretario si rivolge alla miriade di lounge bar e tavole calde, refugium peccatorum di chi fa cibo senza cognizione di causa, da quando sono state liberalizzate le ricette. Discorso diverso per quanto riguarda la vera ristorazione, perché l’impegno degli chef negli ultimi anni ha fatto cambiare radicalmente il punto di vista all’estero riguardo la cucina italiana. “Non è più tovaglia a quadrettoni e mandolino. L’estero valuta il prodotto e il modo in cui viene trasformato. Noi chef abbiamo bisogno delle istituzioni ora come mai prima. Rivolgendosi al Ministro: se ci dite che siamo bravi, avremo un punto di vista diverso anche da parte degli altri. I francesi e gli spagnoli danno un premio ai loro migliori operai. Facciamolo anche noi!”
Gennaro Esposito conclude la serie di interventi prima di passare la parola al ministro: “Non abbiamo mai avuto la possibilità di parlare con le istituzioni che mandavano sempre dei delegati. L’Italia deve essere patria delle iniziative e chi si impegna va premiato. Abbiamo fatto una cena a Vico con pochi giornalisti, soprattutto esteri, occasione ghiotta per fare il punto della situazione, per costruire un tavolo di lavoro. E oggi la maggior parte dei temi sono stati finalmente trattati anche con un membro delle istituzioni”. Dalla cena è nato un plico che lo Chef ha consegnato al Ministro, il quale si mostra affabile e disposto ad accogliere le richieste degli chef, soprattutto in vista dell’Expo 2015, occasione straordinaria per valorizzare le sinergie del Sistema Italia.
Appare necessario dunque far emergere delle priorità di settore in un momento difficile come questo, ma il Ministro Massimo Bray è fiducioso, si impegnerà per una riduzione degli sprechi, tiene conto degli spunti appresi durante la giornata. Cita la sua infanzia quando nella grande cucina di casa leggeva alla mamma Il talismano della felicita’, racconta il suo lavoro per la notte della Taranta. Il male è sempre lo stesso: troppa burocrazia: ”Non devo fare niente , dobbiamo togliere le barriere che di fatto vi impediscono di afferrare quello che sapete fare, dobbiamo dare energia al paese, capacita’ di fare”. E chiude: “Voglio essere un ministro di servizio, capace non solo di ascoltarvi ma di tradurre il tutto in azioni”.
Tutto bene, come sottolinea Davide Scabin mentre Bray assaggia un po’ di mozzarella: “Ha ascoltato, ora lasciamolo lavorare. Poi però mi aspetto qualcosa”. Ecco, cosa vi aspettereste?
- Innanzitutto un incontro istituzionale in cui sia chiaro che non si partecipa solo per parlare ma per prendere impegni formali. E sarebbe il caso che l’incontro avvenisse in una sede istituzionale come il Ministero giusto per allontanare quell’usanza che si è fatta strada in tempi più o meno recenti di incontri simil-istituzionali in contesti privati in cui non sai se qualcuno agisce a nome del Governo o motu proprio ma senza impegno.
- E anche gli chef sarebbe il caso che si dessero una qualche forma di rappresentanza condivisa perché, al di là del valore di tutti quelli che sono intervenuti al convegno, resta l’impegno personale ma non collettivo. Come dire, se chiedi qualcosa al Governo devi anche essere in grado di dialogare e rispondere a nome di una categoria rappresentata nella maniera più ampia possibile. E non solo gli osti e i trattori che forse oggi mancavano. Per non restare nel dubbio che gli altri fossero poco interessati o non fossero stati invitati.
[ha collaborato Antea Raucci]