Don Carmine, cioè il grano tutto italiano per la pizza napoletana del futuro
Grano Nostrum, diciamocelo, è un bellissimo nome per intendere quello che più atavicamente fa parte del nostro mondo agricolo troppo spesso messo da parte e che ora sta iniziando a riscattarsi.
La storia del grano, qui parliamo del tenero, corre parallela in questo senso a quella dei pizzaioli che quel grano tenero lo usano nelle farine che fanno esprimere al meglio la loro arte patrimonio immateriale dell’umanità. La storia si ripete: i pizzaioli erano considerate figure marginali rispetto alla ristorazione proprio come gli agricoltori lo sono nella catena alimentare. Ora i pizzaioli sono star e gli agricoltori si stanno mettendo sulla stessa strada.
Mettere insieme le storie e le capacità imprenditoriali nel mondo del food è una dote che va riconosciuta ad Antimo Caputo e alla famiglia che di mestiere fa il mugnaio da 4 generazioni.
Prima che mi tacciate di essere cantore di uno sponsor di questo sito (vi dico che bello avere di questi sponsor in grado di innovare e riprendere la tradizione senza soluzione di continuità) avreste dovuto ascoltare le parole di Michele Meninno, Alfonso Pecoraro Scanio, Francesco D’Amore, Gino Sorbillo.
E avreste dovuto respirare l’atmosfera della sala e delle sale della Reggia di Carditello che – notizia di oggi – riceverà altri 7 milioni di euro per continuare quel recupero di un sito che è l’emblema di capacità agroalimentari innovative. Del Settecento. Qui praticamente nasce la mozzarella di bufala come sistema, qui studiavano le colture del grano, qui fu allevato il cavallo di razza Persano che divenne il simbolo della cavalleria militare dei Borboni tanto che i Savoia cercarono di fare estinguere la razza.
Partirei dall’endorsement di Gino Sorbillo per questo progetto di filiera che vuole fare della farina con grano italiano al 100% un prodotto di eccellenza non perché ha un tricolore da sventolare, ma piuttosto perché Green Farm Sas (specifico il tipo di società che vuol dire che Meninno ci mette anche più della faccia) e Mulino Caputo cercano un grano che sia eccellente e – non a caso – lo coltivano in Italia o, meglio, in tre regioni del Sud: Campania, Basilicata e Molise.
“Per quanto riteniamo che il raggiungimento di una produzione che possa fregiarsi di essere costituita interamente da “Grano Nostrum”, sia un obiettivo fondamentale, ancora più importante per noi è che la produzione garantisca un grano di altissima qualità, che consenta a tutti gli operatori e trasformatori di portare in tavola il miglior prodotto possibile”, ha spiegato Antimo Caputo.
Il senso del Nostrum è anche in questo areale e Gino Sorbillo ne ha sposato il carattere identitario già favoleggiando (lo confesso, insieme a me) una pizza che sa di Campania ai quattro angoli del mondo. Una visione che àncora la dimensione internazionale di un grande produttore (anche in termini quantitativi) e siti sconosciuti ai più come il Real Sito di Carditello (digressione: fate una visita e rimarrete benevolmente stupiti del lavoro fatto dalle associazioni e dai volontari che vi guideranno alla sua scoperta). Con la farina da Grano Nostrum il messaggio potrebbe quindi arrivare lontanissimo.
Ci vogliono i numeri. E sono stati snocciolati grazie alla presenza di Giorgio dell’Orefice, giornalista del Sole 24 Ore che ha moderato l’incontro e ha fatto uscire il discorso dal recinto di noi quattro o 4.000 appassionati ortodossi di cose del cibo.
Ho avuto la fortuna (beh sì, è il discorso dello sponsor) di vedere i primi passi di Grano Nostrum con l’individuazione dei primi campi in zona Frignano per coltivare il grano Partenope, la prima scintilla del Grano Nostrum che, al riparo della filiera costruita nel Lazio con il Campo Caputo, ha germinato di forza. Poco più di 200 ettari per capire le differenze di terreni – sabbiosi, argillosi, vulcanici – di altitudine ed esposizione celebrati con il Capodanno del Mugnaio in un terreno che ha subito mostrato i muscoli con un grano capace di accontentare le richieste del laboratorio del Mulino Caputo.
Si è passati ai 1.500 ettari di quest’anno che daranno il loro frutto nel prossimo Capodanno del Mugnaio, a giugno in data da definire perché l’agricoltore e l’impresa agricola stanno sotto il cielo. Tradotto non è che si può prefissare la mietitura il 1 o il 15 di giugno. Sarà il banco di prova definitivo per assaporare l’intuizione dei due soggetti che stanno mettendo a punto il Grano Nostrum e vedremo nuovamente le pizze di Sorbillo, di Sammarco, di Fortunato e di tutti gli altri che non hanno fatto mancare un assaggio anche alla fine della conferenza di presentazione del progetto.
1.500 ettari che raddoppieranno a 3.000 con la campagna 2018-2019 e che renderanno tangibile l’idea di una pizza, di un pane o di un lievitato di pasticceria a tutto Farina Nostra.
E sarà quello il momento per tenere a battesimo la nuova varietà di Grano Nostrum che nascerà da questa sperimentazione (non vi mettete paura del termine, perché da sempre l’uomo cerca di migliorare i frutti della terra con incroci e studi che prescindono da OGM e altre nefandezze). Sarà un grano a fortissima vocazione territoriale, cioè a proprio agio nei terreni individuati dal progetto Grano Nostrum. Come dire, di casa.
Il nome è già stato scelto: Don Carmine (altro vantaggio di chiacchierare con lo sponsor) ed è un omaggio al fondatore del Mulino Caputo, il Carmine che nel 1924 di ritorno dalle terre straniere mise su il Mulino proprio nell’area limitrofa a Carditello e che l’attuale Carmine, cioè la terza generazione, ha ricordato parlando del quadrivio Caputo, l’incrocio di strade che segnavano l’area del mulino poi trasferito nell’attuale sede al Ponte dei Granili a Napoli dove sta dal 1939.
Per gli appassionati di storytelling c’è da pescare a mani basse.
Ma l’occhio alla tradizione è parte di quella vista globale e panoramica che ha portato l’azienda molitoria a diventare contemporanea con la spinta alle farine alternative alla 00, dove per alternative si intende rispetto al disciplinare della pizza STG, e a riprendere la Tipo 1 che è diventata un cavallo di battaglia del loro catalogo fino ad aprirsi a un arcobaleno di colori dei sacchi guidati da due must come il SaccoRosso e il Blu pizzeria che sono il pane di moltissimi pizzaioli campani e no, tradizionali e canottisti.
Ha messo lo zampino nella discussione anche Alfonso Pecoraro Scanio che, ambientalista, già Ministro dell’Agricoltura, presidente della fondazione Univerde, è stato il soggetto che ha filato la tela per raggiungere il riconoscimento Unesco all’arte dei pizzaioli. Per lui un successo l’idea territoriale di un grano soprattutto se saprà raggiungere valori di basso impatto ambientale, leggi poco utilizzo della sempre più preziosa acqua, senza il moloch del biologico a tutti i costi.
Il solco è dunque scavato. Anzi, i solchi. Da una parte la caratterizzazione territoriale che è l’elemento fondante del progetto Grano Nostrum e della varietà autoctona Don Carmine: Napoletano, anzi, Napolitano come si usava nel Regno delle Due Sicilie per indicare gli abitanti che erano al di fuori della capitale ma facevano parte dell’amministrazione borbonica.
Dall’altro, la necessità di affinare sistema e capacità di stoccaggio del grano che molti spesso tralasciano. Un passaggio vitale per avere un grano eccellente da macinare. Basti ricordare che la mietitura si fa una volta all’anno ma i mulini macinano per un anno intero. Capirete da soli che una corretta conservazione del grano e una perfetta ventilazione sono l’ABC della farina il cui risultato noi consumatori traduciamo in prodotti di pizzeria, panificio e pasticceria. Insomma, lo stoccaggio sta al grano, come la cantina sta all’uva.
E voi mica lo berreste un aceto, vero?