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Vino
12 Febbraio 2019 Aggiornato il 9 Ottobre 2019 alle ore 07:56

Vini naturali. Le 10 migliori etichette da mettere in cantina

Voglio esser chiaro: amo i vini “naturali” praticamente da sempre. E ricordiamo che la definizione di vino “naturale” vuole essere solo un modo più facile
Vini naturali. Le 10 migliori etichette da mettere in cantina

Voglio esser chiaro: amo i vini “naturali” praticamente da sempre.

E ricordiamo che la definizione di vino “naturale” vuole essere solo un modo più facile di definire un settore vinicolo caratterizzato da tanta attenzione in vigna, e in cantina, soprattutto.

Una manifestazione come “Io bevo così” offre la possibilità di fare un punto della situazione e di scegliere le migliori etichette da mettere in cantina.

1. Divella

A me piace cominciare le degustazioni con una bollicina. Ho iniziato dalla Franciacorta, con l’azienda Divella.

Alessandra (Divella appunto) è bella e brava: a soli 28 anni ha preso in mano 2 ettari di vigneto con l’idea di fare vini autentici e artigianali. Tre le etichette, tutte Pas Dosè, circa 7.000 bottiglie totali.

Siamo a Gussago, ai confini orientali della Franciacorta, con terreni dove comandano calcare, fossili e argilla. Mi colpisce molto lo chardonnay, che riposa per 2 anni sui lieviti. Un po’ meno gli altri due pinot nero, dai riposi più lunghi, rispettivamente di 3 e 5 anni.

2. Manlio Manganaro

Ecco l’assoluto vincitore di giornata.

Manlio Manganaro ha studiato come assaggiatore Onav, Sommelier Ais e Degustatore, e nel 2011 lascia il suo lavoro storico come Art Director pubblicitario per aprire la prima enoteca con somministrazione di vini naturali a Pavia.

Ma la testa non deve patire (come si dice dalle mie parti). Origini siciliane, una profonda amicizia con uno dei produttori più noti della regione, Manlio affitta un ettaro nella zona di Marsala, piantato a grillo, e nell’annata 2017 effettua la sua prima vendemmia e vinificazione presso la cantina dell’amico.

Bassa resa per ettaro, conduzione “biologica”, vinificazione a contatto con il raspo, selezione manuale dei grappoli interi migliori, fermentazione spontanea, senza utilizzo di prodotti “da cantina”. Il risultato delle 2.600 bottiglie circa è sorprendente, con l’annata calda e soleggiata tutta nel bicchiere, senza rinunciare all’acidità, comunque.

Fortuna? Capacità innate? Non lo so, vedremo la nuova annata, che il 2018 è stata annata diversa.

3. Tenuta Ca’ Sciampagne

I Cossi, padre e figlio, il papà “tenutario” di Ca’ Sciampagne (nessuna paura, è solo il nome catastale della località dove sono parte dei vigneti). Immediata periferia di Urbino, vini (doc) come il Bianchello e il Sangiovese dei Colli Pesaresi oltre a bianchi e rossi (igt) come Chardonnay, Sauvignon Blanc, Albana, Aleatico ed Alicante.

Mi colpisce, tanto, il Revoluscion, rifermentato da uve bianchello, con tanta sorba in primo piano. Spiazzante, e gli altri non sono da meno. Papà Cossi è un vero artista del vino.

4. Rocco di Carpeneto

Ecco Rocco di Carpeneto, da me amato per la barbera rifermentata in bottiglia senza sboccatura, l’Andeira. È che questi qui, Alto Monferrato, vicini a Olona Ovada, una cantina bellissima, su tre livelli, assolutamente da visitare, sorprendono in ogni loro vino, e non, solo per i nomi strani.

Albarossa, barbera, cortese, dolcetto e nebbiolo. Il risultato, come loro amano dire, sono vini tesi, radicali, senza trucco. Basse rese, fermentazioni spontanee in botti vecchie o in anfore di terracotta, fermentazione spontanee in vasche di acciaio, con impiego esclusivo di lieviti selvaggi, e macerazioni prolungate.

Ottimi risultati, da meritare quasi un post a parte.

5. Nevio Scala

Da Nevio Scala è il figlio ad accogliermi, idee chiare, nessun grillo per la testa, la voglia di migliorare.

Garganega in purezza, rifermentata in bottiglia o ferma, per dare vita a vini semplici e spontanei. Su terreni vulcanico-alluvionali, si ricorre a quantità minime di rame e zolfo, niente pesticidi o prodotti di sintesi. Con un lavoro in cantina teso a valorizzare il vitigno e l’annata.

6. Azienda Agricola Di Cato

L’Azienda Agricola Di Cato è a Vittorito, in provincia dell’Aquila, dove è praticamente nato il Montepulciano d’Abruzzo. Terra di grandi escursioni termiche, 400 m s.l.m., terreni argillosi e calcarei ma anche terre nere e sassose.

Mi accoglie sorridente Maria Paola “wonder” Di Cato, l’autrice delle belle etichette. Ha scelto di essere felice, scrive sul suo profilo Facebook, lasciando un lavoro sicuro in ufficio trovato dopo aver terminato l’università.

Un ettaro, biologico certificato, da dove vengono un Montepulciano e un Cerasuolo. Ad affiancarli una Malvasia diraspata a mano e con fermentazioni spontanee e macerazione sulle bucce.

Tra vigna e cantina ci si muove con gli interventi minimi, non usando pesticidi o erbicidi, e lavorando con taglia-erbe e zappa. Mi piacciono tutti, senza se e senza ma.

7. Matita Wines

Matias e Alessio sono i creatori di Matita Wines, Matias un mancato enologo e Alessio sommelier per hobby, passione comune il basket, nessuna tradizione familiare vitivinicola alle spalle, “ma tante bevute di allenamento”, come amano dire.

Siamo in Abruzzo, praticamente a Pescara. Uve coltivate senza prodotti sistemici e pesticidi, vinificate e affinate senza alcun sussidio chimico-tecnologico, facendo, orgogliosamente, tutto a mano.

Vini vivi, vitali, puliti e senza problemi organolettici. Trebbiano, passerina, malvasia, montepulciano, questi i vitigni, con interessanti interpretazioni come la versione “carbo”, con semi macerazione carbonica, o il rosato anomalo, chiamato comunque rosso, ma con un saldo di trebbiano (20%), che mi colpisce più di tutti.

8. Deperu Holler

Ormai fatico a seguire la tabella di marcia, ma – forse per sola fortuna – mi trovo davanti all’altra mia grande curiosità, l’azienda sarda Deperu Holler.

Carlo, sardo, viticoltore ed enologo, una laurea in agraria a Milano, corso di Viticoltura ed Enologia. Tatiana, brasiliana di origine tedesca, viaggiatrice, laureata in Marketing e Comunicazione. Conosce Carlo a Milano, quando lei lavorava nel settore pubblicitario. Lui pianta nel 2007 i primi quattro ettari di vigna che cura ancora oggi in prima persona, oltre a svolgere tutto il lavoro in cantina. Solo quando può si dedica alla musica, l’altra grande passione.

I vini? Soprattutto me li racconta lei, che si è lasciata contagiare dalla Sardegna, dal suo cibo e il suo vino. Ormai sei ettari di vigna, tutti con basse rese, zero interventi e tanta attenzione.

Buono il vermentino, ma mi colpisce molto il Familia, blend da vitigno autoctono, il muristellu (Bovale Sardo) e cannonau con percentuali che cambiano a seconda dell’annata.

9. Giovanni Iannucci

Lascio alla fine le due aziende campane che avevo “puntato”. Apro con Giovanni Iannucci, sconosciuto ai più, a me già noto per l’interpretazione della falanghina.

Siamo a Guardia Sanframondi, sulle colline del Sannio beneventano. Due vitigni autoctoni del  territorio, la Falanghina e il Barbera del Sannio, basati sulla totale assenza di concimi chimici, diserbanti e trattamenti di sintesi in vigna, e nessun uso di lieviti selezionati, prodotti enologici e controllo della temperatura di fermentazione in cantina. Sulle piante solo rame e zolfo, concimazioni attraverso sovesci dove necessario, e dosi minime di solforosa in cantina.

La falanghina, macerazione sulle bucce di 48 ore, fermentazione spontanea, senza alcuna aggiunta di lieviti selezionati, affinata in parte in vasca di cemento e per l’altra in tonneaux di rovere francese sulle fecce, mi lascia comunque ancora interdetto, poco entusiasmante.

Non male la barbera del Sannio, fermentata in acciaio ed imbottigliata dopo otto mesi di affinamento senza chiarifiche e filtrazioni.

10. La Cantina di Enza

Chiudo con La Cantina di Enza, di cui m’avevano raccomandato la coda di volpe, per me in interpretazione troppo ardita.

Enza Saldutti, titolare dell’azienda, è donna appassionata e difende fortemente le proprie scelte (leggasi che non ha particolarmente gradito il fatto che la coda di volpe non mi sia piaciuta).

Sette ettari circa di terreni di cui solo 5 a vigneto, certificato biologico. Poche le bottiglie prodotte, circa 4.000, con conduzione dell’azienda esclusivamente familiare. E con un aglianico davvero sorprendente, con tutte le caratteristiche ben in mostra. Sarà la terra della zona di Montemarano, una specie di “casa madre” per l’aglianico, a mio parere. Altro discorso per il Taurasi, buono ma da attendere.

Gli altri assaggi da segnalare

Cito anche qualche altro assaggio: Josef, con la sua convincente garganega frizzante (i rossi un po’ meno), L’acino, con la guarnaccia bianca, Cantina Martinelli, con Leviatano garganega frizzante, un nuovo e improvviso arrivo fattomi provare da un distributore (un po’ sottobanco).

E ancora Terraquilia, la bella azienda a me nota per l’ottimo lambrusco e che qui mi colpisce con il pignoletto, Abbazia San Giorgio, con il suo ottimo zibibbo secco, Tenuta Terraviva, che interpreta in modo rigoroso il trebbiano d’Abruzzo, Le Strie, con i fantastici vini della Valtellina.

Amerighi, un amico della prima ora, sempre protagonista con il suo syrah, eccezionale, Cascina Boccaccio, con il suo cortese rifermentato in bottiglia e Collecapretta, con il mitico, almeno per me, trebbiano spoletino.

Io bevo così – bene.

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