Roma. Cosa è Waraku, strepitoso ramen bistrot sulla Prenestina
Rispetto, cura e conoscenza sono la base di ogni cucina tradizionale, ma quando parliamo di una cultura rigida come quella giapponese ogni imperativo raggiunge la sua accezione più estrema e ogni tentativo di replica diventa una sfida che ben pochi raccolgono e pochissimi riescono a sostenere.
C’è voluto il coraggio e la passione di Maurizio Di Stefano, un ragazzo romano che ha dedicato gli ultimi 20 anni della sua vita alla cultura nipponica.
Viaggi annuali, corsi di lingua, una scuola di karate, un’associazione culturale e infine Waraku, il ramen-ya (bistrot di ramen) nato su spinta dei frequentatori del dojo e di amici che hanno deliziato di ottime cene a casa di Maurizio e sua moglie, ma soprattutto su spinta di nostalgici giapponesi residenti in Italia che hanno ritrovato profumi e consistenze dei piatti della loro terra.
Maurizio ha aperto le porte al pubblico romano senza cedere di un millimetro sull’autenticità dei dettagli, iniziando ogni singolo avventore alla conoscenza dello stare a tavola giapponese. Sebbene il locale presenti un’atmosfera conviviale e distesa, ogni cameriere è istruito a dovere per guidare i meno esperti. Un vero e proprio viaggio, dove quando manca la conoscenza della nomenclatura (come nel mio caso), bisogna seguire, ascoltare, accogliere e solo alla fine interrogare i propri sensi per valutare. Il risultato principale è che ero felice.
Felice di aver allargato la mia gamma di sapori, felice di sapere che in Giappone vivrei benissimo, felice di poter continuare ad approfondire questa cucina senza saltare dall’altra parte del mappamondo.
Allora, itadakimasu! いただきます
Apriamo le danze con Gyoza (4,50 €). Questi ravioli brasati di maiale e verza, meglio in versione con senape giapponese (Karashi), sono un’altalena di sapori. L’equilibrio è molto precario, ma può essere bilanciato dall’immersione nella salsa di soia e aceto di riso. Ho finalmente la prova che il wasabi può essermi simpatico se ben contenuto, un po’ come quando guardi i leoni allo zoo.
Udon freddi (12 €). Se il caldo di Roma non perdona, Waraku propone sia men (gli spaghetti del ramen) che udon in versione fredda. Vabbè un’insalata di pasta, direte. Per niente! E’ stato difficile non posizionare questo piatto al primo posto. Il motivo è sul fondo del piatto, ed è una salsina di sesamo eccezionale.
Il Re di casa è sicuramente il Jambo Ramen (16 €), la versione double della razione base di ramen. Ricordiamo che i men sono fatti rigorosamente a mano e il brodo segue tutti i passaggi e le tempistiche della ricetta tradizionale. E si vede. Bandite ogni tipo di allegorie chimiche come i naruto (quelle formine rosa ad aspirale), ma solo condimenti genuini, anche nella versione vegetariana. Sicuramente il miglior ramen a me mai pervenuto.
Il Thai Ramen (13 €) è un ramen in brodo di latte di cocco, lemongrass, battuto di gamberi, coriandolo e peperoncino (tom yum kung). E’ la dimostrazione che il fusion ha ragion d’essere solo quando si comprendono appieno le fondamenta. La sapidità assume sfumature diverse ad ogni livello dell’assaggio, tanto da dovermi concedere almeno 10 secondi tra un boccone e l’altro.
A questo punto ho mangiato abbastanza, ma abbracciando la causa attacco il Pollo Karaage (8,50 €). Croccante e asciutta la frittura, succoso e saporito l’interno. Cosa si può chiedere di più ad un pollo fritto? Beh, un’ottima salsa di accompagnamento! Eccola, dolce, speziata e a base vegetale. Ok, non posso chiedere di più.
Ottimo anche l’Okonomiyaki (10 €), tanto che chiederemo una replica prima del dolce. È una sorta di frittata con carne, verza, mais, servita con pancetta croccante, aonori (polvere di alga nori) e katsuobushi (sfoglie di tonno essiccato). La cosiddetta “pizza di Osaka” non si presenta in maniera aggraziata all’impiatto, ma non m’infastidisce minimamente, non a caso è una pizza-frittata.
Tra cheese cake e tiramisù al the verde (entrambi 4 €), il dolce di spicco è come sempre quello tradizionale, i Mochi (4 €). Questi piccoli gioielli fatti in loco, sono morbidi e ripieni di marmellata di fagioli azuki (anko). Un vero e proprio interrogativo per le mie papille, ma sono maledettamente buoni e non si può fare a meno di finirli, specie se accompagnati da un ottimo sake freddo (2,50 €).
La cena si chiude con una lunga chiacchierata con Maurizio, che mi racconta un po’ di lui, di come ha appreso le tecniche gastronomiche del Kanto, la regione giapponese di provenienza della moglie, confermando le mie impressioni sulla ricerca estenuante dell’autenticità.
Devo essere onesto, Waraku non è ancora ad uno stato di evoluzione completo della dimensione ristorante, ma quando il tuo problema principale è trovare un ordinamento dei piatti che ti sono piaciuti di più, circostanza oramai sempre più rara, il rapporto qualità-prezzo diventa più che accettabile. In definitiva, credo che Waraku continuerà ad essere una vera fucina della cucina nipponica nella capitale, ma dovrà macinare un po’ di esperienza sul campo per prendersi il posto che a mio avviso gli spetta nella ristorazione capitolina. Nel frattempo continuerò ad andarci.
Waraku. Via Prenestina 321/A, Roma. Tel. +39 06 2170 2358
[Francesco Simone Lucidi]