La pasta al bacio di Arcangelo Dandini
Roma. Io il mio pusher di pasta, penso sia cosa nota, l’ho trovato a Prati, ma solo per caso. Qualche anno fa avevo un appuntamento vicino Piazza Cavour. Ben presto si era slittato verso l’ora di pranzo e alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti capitammo all’incrocio di via Cicerone con Via Belli. E subito mi colpì la pasta. Ho intensificato le visite e la conoscenza di questo ristorante dal nome paradisiaco: L’Arcangelo. Ho iniziato ad andarci di sera per allargarmi all’ora di pranzo anche se la linea di cucina è sempre uguale (e qui sta il bello) e puoi “accontentarti” di un primo da pausa. Arcangelo Dandini e la moglie Stefania Sammartino sono persone piacevoli con cui intrattenersi in conversazione e non mi è stato difficile chiedere loro il permesso di fotografare piatti e preparazione. Sono andato ieri, compleanno di Arcangelo che festeggia i suoi 48 anni e le 4 generazioni di ristoratori, in perfetta forma. Secondo me, merito di una carta che lo fa ricordare alle ore canoniche in cui si officia il rito dell’acqua che bolle nelle case dei suoi avventori.
Sì, perchè Arcangelo non è una tesi, ma un dogma: gli devi credere mentre fa danzare il pepe come gli ha insegnato Salvatore Tassa. Sarà quella la base di sapore che esplode e che rende inconfondibili i suoi primi? Non lo so. Ma tenetevi forte. Volete sapere qual è la novità arcangiolesca per il 2010? “Voglio levare il pepe dalla cucina romana che poi Carbonare e Cacio e Pepe poco hanno a che spartire”. Argh, come? Aiuto. L’ho detto che si deve credere a questo Cuoco (sì perchè per lui il vocabolo chef sarebbe da cancellare come dice qui). E allora, rewind per un Ritorno al lago Regillo anzi meglio un Viaggio d’inverno a Rocca Priora che sono i nomi di due suoi piatti che tornano indietro nel tempo su per i Castelli Romani.
Anzi, vado di Anabasi e come Senofonte seguo la spedizione all’interno del gusto, tutt’altro che disastrosa, che Arcangelo propone: io preferisco il plasmon con torcione di foie gras e granella di caramella all’orzo. Un gioco di rimandi che ti ricorda l’infanzia con i biscottini e il momento della scelta di sapore adulta con il fegato grasso. E’ il piatto flagship per me e infatti nella classifica dissaporiana vi figura (a proposito, scritta in sequenza di ricordo).
E lo è perchè mi sembra scontato che si possa associare L’Arcangelo alla pasta. Almeno fino a quando non vedi un giovane sabaudo chino a fotografare e a un passo dallo stramazzare al suolo per gli effluvi della “triade” cioè gli spaghettoni di Benedetto Cavalieri all’aglio rosso e mosto cotto – dedicato a Gabriele Bonci – i rigatoni di Verrigni alla matriciana e i rigatoni di Verrigni alla Carbonara. La triade è il pacchetto d’attacco che è capace di segnare in qualsiasi porta, anche quella più avversa ai carboidrati.
Il genere, dunque, è quello nazional-popolare ma l’esecuzione è raffinata. Un risultato possibile perchè la preparazione di Arcangelo affonda le sue radici nell’humus familiare che ha tramandato il mestiere dai trisavoli. “Pensa che mia nonna paterna è del 1906 e già sua nonna aveva un ristorante”. Arcangelo nasce praticamente tra i fornelli di via Crescenzio a Roma per poi sbarcare ai Piani di Caiano, tra Monteporzio e Rocca Priora, dove i suoi aprono il ristorante La Doganella. Dal padre Stefano impara il linguaggio della qualità delle materie prime. “Negli anni ’50-’60 fare il ristoratore significava in prima battuta approvvigionamento e quindi soprattutto produzione. Questa cultura mi è stata trasmessa. Ti faccio un esempio: il 15 agosto 1970 al ristorante c’erano 1520 persone, tante quanto erano tutte le sedie disponibili. Il che volle dire più di 700 polli, da fare con i peperoni, considerato che c’erano anche 35 camerieri e 15 persone in cucina. E avere i polli significava arrivare fino a Ferentino, a Frosinone recuperando singolarmente dai contadini con il pulmino della Volkswagen con cui mio padre andava in giro. Noi stessi avevamo la terra tutt’intorno. Le patate le facevamo noi, 2 ettari. E’ vero che c’erano pochi piatti e si allevavano 1200 galline ovaiole le cui uova servivano per le fettuccine. Il parmigiano si conosceva solo quello di 3 anni. E il prosciutto? King’s del cestello (urca, se lo ricordo, ndr). E vogliamo parlare del pane? Ogni donna che veniva al ristorante per i servizi portava 3-4 pagnotte cotte nel proprio forno a legna. Pane di Lariano. E si mangiava secondo stagione per esaltare i sapori. In famiglia si cacciava e la polenta con i tordi si faceva quando i tordi mangiavano le bacche di ginepro. Le spuntature del maiale erano buone perchè l’animale non mangiava frutta nel periodo di massimo ingrasso per evitare che ingerisse troppa acqua. Differenze che si dimenticano, ma che mio padre mi aveva insegnato. Ricordo ancora il confronto con la ricotta della stessa pecora del parente pecoraio quando era in ‘pianura’ cioè a 600 metri slm alla Doganella e quando era su a 900 metri sull’Artemisio”. Eccola la cucina del territorio e della tradizione, due termini che forse non cancellerei ma doserei con maggiore attenzione. L’Arcangelo dei Castelli ci sta tutto.
In realtà fino ai 20 anni studia tutt’altro, va al Classico (Anabasi, mica pizza e fichi…) e poi fulminato sulla via di Damasco a 20 anni dà una bella capocciata cadendo da cavallo e decide di ritornare ai fornelli. Va a Milano nel 1987 da Aimo e Nadia a fare il sommelier, mestiere per il quale ha studiato all’Ais, e in tre anni guarda, impara e conosce qualche francese come Georges Blanc di Vonnas. Nel 1990 ritorna a Roma ed entra come socio nel Richelieu, “bel laboratorio in mezzo alle vigne”. Poi nel 1993 riparte alla volta di Viareggio per realizzare insieme alla sua famiglia il Dandini all’Esplanade. Preciso come un orologio, dopo altri 3 anni va a Ischia e poi nel 1997 è al Simposio di Costantini. Nasce così la joint venture con Gabriele Bonci all’epoca al 4° anno di scuola e faceva i dolci. Nel 2003, il ristorante tutto suo, L’Arcangelo.
Ma da un sommelier dove nasce l’interesse per la pasta? E qui spunta la madre, di Stefania, che cucina bene la pasta. Arcangelo che una mezza passione l’aveva già inizia a prenderci gusto e così eccoci arrivati ai giorni nostri. La “triade” è imbattibile e bisogna solo far lasciare un attimo di passo in più alla cottura sulla matriciana rispetto al mio dente abituale. Sono tre piatti di gioia assoluta che Ajit Kumar Ghosh, il secondo di cucina, calibra sulle note del guanciale, del mosto e del pecorino.
La carta, come detto, riposa sulla tradizione, dalla testaccina alla giudaica e alla cardinalizia, per proporre le animelle, il coniglio fritto dorato, le quaglie con pizza bianca e fumo di rosmarino (il rosmarino è veramente acceso e il profumo si sposa una meraviglia con la sapidità della pizza bianca che accompagna la carne delicata della quaglia) per arrivare alla trippa di vitello alla romana con mentuccia e pecorino che agli appassionati del genere non potrà sfuggire.
Con Arcangelo, devo confessarlo, mi legano altre due passioni: il foie gras che non c’è solo in Anabasi, ma anche nella scaloppa grigliata al sale di Mothia, pan di spezie e ficatum di archetipo romano. Personalmente associo uno dei due allo spaghetto mostato e la combinazione mi viene bene, anzi benissimo. Un raffronto Italia-Francia da grande spolvero. Di più non potrei dire, se non che chiudo in bellezza con una zuppa inglese (ottima soprattutto nella pausa di mezzodì) o un fondente di cioccolato.
Scusami ma una classifica vorrei chiedertela anch’io! Ed ecco la classifica delle paste secondo Arcangelo.
- Spaghetti di Benedetto Cavalieri ex aequo con quelli di Fabbri
- Rigatoni di Verrigni
- Paccheri di Setaro
- Calamarata di Faella
- Candele di Vicidomini
L’Arcangelo Via Gioacchino Belli, 53 – Roma. Tel. 0039 06.3210992
Qui trovate le ricette! Qui trovate, invece, i supplì che sono entrati in carta 🙂
Foto: Francesco Arena