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21 Giugno 2010 Aggiornato il 13 Febbraio 2011 alle ore 11:04

Globali o glocali. Cosa conta in tavola?

In fine volgemmo al porto dove ci attendevano le nostre navi; e vi giungemmo attraversando una terra piena di ogni delizia, piacevole, temperata più di
Globali o glocali. Cosa conta in tavola?

In fine volgemmo al porto dove ci attendevano le nostre navi; e vi giungemmo attraversando una terra piena di ogni delizia, piacevole, temperata più di Tempe in Tessaglia, più salubre di quella parte d’Egitto che guarda verso la Libia, irrigua e verdeggiante più di Temiscira, più fertile delle pendici del monte Tauro verso Aquilone, più dell’isola iperborea nel mare Giudaico, più che Caliga sui monti Caspici: fragrante, serena ed amabile quanto la terra di Turenna.

(Rabelais, Gargantua e Pantagruel)

pantagruel-01

Una discussione di questo fine settimana dagli amici di Dissapore mi ha fatto molto riflettere. Si parlava dei soliti noti, di quei nomi di produttori di eccellenze che sono sulla bocca di tutti e sulla possibilità di indicarne di nuovi. Da lì il passo è stato breve a parlare di una mia fissazione, la necessità di una cucina che partendo dai territori possa diventare ambasciatrice dell’eccellenza italiana che per nostra fortuna è ricca e composita.

Non sono tanto vecchio (gloriosa classe 1965), ma pratico questo sport da tanto tempo. Da così tanto tempo da ricordarmi un’era eroica in cui i cuochi andavano al mercato. Da ricordarmi la rivoluzione di Bocuse, che scopriva l’acqua calda e propugnava che la cucina iniziasse dal mercato. Era pochi decenni fa solamente, ma oramai percepiti come eoni…

Un’era mitologica in cui si sopravviveva senza cellulari, navigatori cellulari, internet e soprattutto senza i grandi distributori del lusso alimentare. Anni in cui la spesa non si faceva per telefono, su cataloghi lussuosi o mediocri, ma fisicamente con un rapporto con i fornitori e non con rappresentanti in grisaglia grigia e cravattone d’ordinanza.

Ecco credo che questo sia un punto nodale del futuro. Una battaglia che vale la pena di essere combattuta tutti insieme, il passaggio nel nostro settore dalla globalizzazione alla glocalizzazione. Un patto tra gentiluomini tra cuochi, comunicatori, gurmè e appassionati: non esiste una grande cucina italiana che non sia difesa e conoscenza delle eccellenze enogastronomiche italiane. Non può esistere una grande cucina che non parta necessariamente dalla materia prima. Non può esserci eccellenza senza ricerca dei prodotti e dei saperi di un territorio. In una parola, esattamente come succede nel vino, la grande cucina si nutre di territorio. Questo non significa che non lo possa superare, ma solo dopo averlo metabolizzato e fatto proprio. La questione è semplice, ma non scontata: quante volte presa la nostra macchina, fatti chilometri di strada, siamo arrivati in locali piacevoli e intercambiabili, fatti delle medesime stigliature alla moda, di identico servizio e di sapori simili? In quanti locali, dalle madonie alle alpi, abbiamo assaggiato il medesimo Pata Negra, le identiche Belon, l’immancabile black Angus, la solita chianina? E questo a prescindere che in quel ristorante (sotto il Corno Grande o davanti al golfo di Taranto, o ai piedi delle Dolomiti) ci fossero a pochi chilometri produttori eccelsi e fantasmagorici, razze dimenticate e sapori perduti. L’obiettivo è essere Trendy, moderni, alla moda… Insieme all’ultimo strillo di cellulare, all’ultimo urlo di scarpini e alla speranza di essere invitati alla prova del cuoco, ci sta anche alzare la cornetta e comprare (a qualunque prezzo) l’ultimissima leccornia che un mercato massificato e bizantino ci offre!

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L’amico Scuteri mi fa notare come la doverosa dialettica con il territorio, sia più semplice in provincia, piuttosto che in città. Che il caos delle moderne metropoli renda impervio questo lavoro. Mah, è cosa sicuramente vera, ma credo ci sia molto di pigrizia e di confusione. Il mondo gourmand è giovane, troppo per non essere provinciale e acerbo (badate bene tutti, me compreso ;-)), ci siamo fatti abbagliare dalla polvere di stelle, esattamente come è successo con i sapori dolci e vanigliati nel vino, abbiamo confuso l’esotismo e la ricerca del prodotto strano come un valore assoluto, come una certificazione di eccellenza. Senza capire che se un sapore unico poteva diventare di massa ed esportato ovunque, beh allora non sarebbe più stato più tanto unico. Ad un certo punto nelle cucine (potrei anche dire in quale momento della fine degli ’80 questo sia successo) non è bastato più la conoscenza della materia prima, ma si è cercato l’alimento sconosciuto ed esotico (che si chiamasse Pre-salè, burro salato della Normandia o Castelmagno). In quegli anni ero già appassionato e muovevo i primi passi nel bicchiere presso l’enoteca dell’Orologio a Latina, ricordo ancora a tarda notte un giovanissimo Vissani, che finito il servizio, piombava da Baschi nella notturna e dechirichiana piazza del Popolo, in attesa dell’asta del pesce di Anzio… Non alzava un telefono per farsi portare stupefacenti spigole slovene o astici di Cape Code… Prendeva una macchina e scendeva (moderno transumante) verso il mare!

Spero che in molti, moltissimi facciano come il Peppino Tinari di Villa Majella citato da Antonio, e come molti ristoranti che conosco in tutta Italia: ricomincino a trattare animali interi, frutta e verdura conosciuta e possano dire con malcelato orgoglio di aver chiamato la Selecta (intesa qui solo come metonimia la parte per il tutto), ochidivolovolete solo due volte in un anno. E spero che sempre più guidaroli, bloggaroli, appassionati e santoni sappiano apprezzarlo pubblicamente, prendendosi anche dei rischi e riportando le italiche cucine nel territorio che gli compete: l’alto artigianato! Roba di grembiuli e mani rovinate, non di macchinoni e scarpe squadrate.

salamino

Foto: Francesco Arena

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