Roma. Metamorfosi, stella Michelin per capire la differenza tra nascosto ed evidente
Mangiare da Metamorfosi, ristorante stella Michelin a Roma, è un po’ giocare a nascondino e se il bello va scoperto, anche il buono non scherza.
Qui come in ogni gioco ci sono le regole: quella fondamentale è che si mangia tutto insieme e se lasci indietro qualcosa nel piatto, hai la penalità, ovvero ti perdi il meglio perché gli ingredienti non vanno separati e in cambio loro non si nascondono, anzi li riconosci uno a uno.
E io, lo ammetto, ho un debole per la cucina che dichiara quel che mangi.
Il benvenuto è un panino cotto a vapore, un cubetto di tonno scottato e una mini carota ripiena, accompagnato da Billecart-Salmon poi inizia il gioco, il menù degustazione, quello completo, da 10 portate.
Ma cosa bevi passando dal pesce alla carne, dal crudo al cotto? Il sommelier suggerisce un sauvignon di Villa Job, un giovane produttore che sperimenta vini biologici naturali in Friuli e io l’ho amato per il suggerimento (ovvero appena fuori ho cercato di capire dove lo vendano a Roma).
Per prima arriva una ciotolina con una crema appena color burro e quel bordo di polvere nera fa intuire altro. Infatti sotto la crema di patate sono nascoste le cozze e la polvere nera ti porta dopo l’essenza del nero di seppia.
Nera è pure l’alga che sigilla l’ostrica cotta e accompagnata dalla brunoise di rapa, non è decorazione né vezzo: è necessaria per moltiplicare il mare.
Arrivati alla foglia di grano qualcosa vedi, ma stavolta l’inganno è nel nome, perché la foglia è double face, da un lato bieta, dall’altro taco e come tale va mangiata, con le mani. D’altronde sul menu c’era scritto, quindi non cercare posate, arrotolaci dentro il tonno rosso e le erbe e mordi.
Sul croccante di semi di lino e sesamo va versata la crema di Blu del Monviso, poi devi spaccare la cialda per scoprire che sotto ci sono i porcini crudi e cotti.
Sul menu ti avevano anche avvisato che alcuni piatti vanno condivisi (c’è anche la pagnotta che arriva prima dei pani singoli), un po’ probabilmente per equilibrio di proporzioni ingestibili nella porzione singola, ma molto perché il cibo è condivisione e allora fa parte del gioco.
Come il crudo d’agnello accompagnato da emulsione d’ostriche e polvere di peperoni piccanti, che ad essere sincera dell’agnello crudo avrei diffidato e invece avrei sbagliato.
Siamo arrivati al risotto che pure è sigillato, stavolta da una sfoglia di sottilissima di funghi, gli stessi che poi trovi dentro assieme alle nocciole, ma per raggiungerli devi far colare dentro il formaggio che sennò non si chiamerebbe risotto “opercolato”. E’ servito in una ciotola di legno e si mangia con un cucchiaio di ulivo che Roy Caceres pare abbia intagliato di persona: “la mano dello chef” spiega con ironia il gentilissimo e sorridente maitre. Però lo ammetto è il piatto che mi ha convinto meno. Quasi normale.
Anche perché subito dopo arriva quello per cui posso morire: la minestra di pesce in raviolo. Di una semplicità assoluta, ravioli accompagnati da pesce crudo che nascondono (anche loro) il brodo di pesce all’interno: mordi ed esplodono. E io mi commuovo.
Però siccome non basta, al nostro menù degustazione è stato aggiunto un piatto “era nel menù di Capodanno, lo chef voleva farvelo provare”. E io gli sono grata perché la tecnica della pasta all’uovo è la stessa, ma stavolta c’è il tuorlo d’uovo dentro il raviolo, condito col tartufo e appoggiato nel brodo di patate affumicato, che ti chiedi cosa ci può essere di buono nel brodo di patate e invece è perfetto.
A questo punto arriva l’astice e carciofo al “pro-fumo” di cipresso con la spuma calda di mandarino, nascosto pure lui, dentro una sfoglia di legno (che stavolta non si mangia!) e decorato con un rametto di cipresso. Però a parte la scaramanzia nostrana (magari in Colombia il cipresso è associato ad altro…) era buono ma io il fumo non l’ho sentito.
Altra condivisione, il manzo wagyu affumicato (stavolta sì!) con la crema satay e le melanzane che invece ognuno trova già nel proprio piatto, una morbidezza della carne incredibile. Buono e basta.
Il cameriere che ci porta il predessert mi sussurra che secondo lui è uno dei dolci più buoni e non posso dargli torto: un cubetto di blu del Monviso ricoperto di cioccolato bianco da mangiare in un sol boccone con la marmellata di Porto.
Nel frattempo è arrivato il vino da dessert e Roy Caceres. Che finito il servizio chiacchiera con i clienti e descrive le scelte della ristrutturazione fatta l’estate scorsa dallo studio di architettura agrigentino Salefino, lo stesso che a Roma ha curato il ristorante Marzapane. Materiali come gli ingredienti della cucina, che si raccontano per quel che sono, nei colori e nella forma, paglia e argilla alla pareti (che insonorizza pure), resina cementizia a terra, vetro e legno nelle quinte che separano gli spazi e una citazione anni ’70 nel design senza cedere alla moda.
Tu mangi mentre lui racconta che nella brigata adesso sono in 12, che è un privilegio perché così almeno uno può essere dedicato a sperimentare: è Ciro che 3 volte a settimana prova i piatti nuovi che Roy ha pensato e tutti insieme li valutano e così l’80 per cento del menù ora è cambiato.
Intanto finisci con la mela all’ennesima potenza, come la descrive lo chef il dolce mela – pinoli – gelsomino, e ha ragione.
Capitolo prezzi: i due menu Expresion da 6 e da 10 portate costano 100 e 130 €.
Nota a margine: voglio l’orto da cui vengono le insalatine, i germogli e i fiori che sceglie Roy Cáceres.
E sapere da voi se siete convinti che la strada della seconda stella Michelin per ora ha solo trovato una momentanea interruzione dovuta a lavori in corso.
Metamorfosi. Via Giovanni Antonelli, 30. Roma. Tel. +39 06 8076839
[Elisabetta Margonari]