Paul Bocuse a Tino Spezza. “Non avrai altro dio che il mercato”
Mio nonno faceva l’operaio “all’Itargasse”; di lui mi rimane qualche foto in cui si sporge, in tuta blu e con la fedele sigaretta tra le labbra, dalla loggetta del gazometro di Testaccio, in pizzo al magico cilindro di ferro.
Mio nonno lavorava all’altoforno: oggi, quando mi ustiono braccia o dita, quando respiro l’olio della friggitrice, quando mi pelo gli avambracci in vampate dalla puzza di pollo, penso un pochino anche a lui. Ma non subito, e non solo per questo.
Io lo ricordo soprattutto quando mi portava con sé al mercato; quant’erano belle quelle scorciatoie che prendevamo tra i lotti della Garbatella, sembrava di passare tra campi e cascine. E c’era chi si coltivava un pezzo di terreno a pomodori, e una vecchia pazza che alla finestra rispondeva solo al fischio del suo merlo….
E poi il mercato coperto, che era tutta una giostra. I banchisti gridavano, oppure scambiavano battute salaci con quel tono sommesso, tipicamente romano, come comparse che si riposano tra una ripresa e l’altra di un peplum di nessuna importanza. Ce n’era uno, un ortolano, che stava tutto tranquillo a riordinare e a servire, e poi a tratti lanciava un urlo terribile, come se l’avessero accoltellato alle spalle.
Il mio vecchio rivoltava le verdure tra le mani, capoccioni di broccoli o carciofi dalle brattee ben serrate, mele, pere o arance, come fossero ordigni, piccoli o grandi meccanismi da aggiustare, da ribattere, da saldare, da limare. Li portava al viso, alla bocca, al naso, alle orecchie. Talvolta li scuoteva: sembrava cercasse sempre qualcosa, di rotto o di vivo, dentro l’orologio della natura.
Gli piacevano i gusti forti e selvatici, le erbe dei campi, la cicoria selvatica e amarissima, le puntarelle, le misticanze, le rane, i formaggi e la carne di pecora.
Siccome mio nonno mi ha infettato anche con la passione per gli animali, tornavo sempre a casa con qualche bestia viva: lumache sonnacchiose, viscide anguille, granchi di sabbia. E io morivo dietro quell’odore di posti lontani, di terra e di mare mescolati assieme, che lasciavano sulle dita.
Il mercato era per me la conchiglia divina dentro la quale, solo ad accostarci l’orecchio, rinasceva l’eco di un’altra natura, che io dovevo in tutti i modi raggiungere.
Paul Bocuse, La cucina del mercato, Guido Tommasi, 733 pp., € 30.
La prima edizione di quest’opera monumentale risale al 1976, per i tipi di Flammarion; ma la riedizione di questo classico, preceduta dalla breve ed esaustiva introduzione di Alberto Capatti, copre una lacuna nell’editoria italiana da quel lontano 1987, quando la Bur tradusse il testo del maestro francese intitolandolo, un po’ forzatamente, La nuova cucina.
E la nouvelle cuisine informa comunque lo spirito di questo ricettario, pur non essendone, ovviamente, la sola e unica fonte ispiratrice. E’ la dichiarata attenzione ai prodotti, a fare la differenza.
“Tutte le mattine mi reco al mercato”, recita Bocuse nella sua prefazione, come uno slogan d’effetto che intendeva separare la vecchia dalla nuova scuola. Il nuovo cuoco doveva d’ora in poi basarsi sulla freschezza e la stagionalità delle materie prime, le cotture brevi, le salse leggere. “Tutte le ricette, semplici o complicate, raccolte in questo libro, riusciranno solo nella misura in cui chi le esegue saprà riconoscere e acquistare al mercato della sua città o del suo paese, i prodotti di qualità necessari per la preparazione dei relativi piatti. […] Basta saper aspettare il momento giusto e sapersi guardare in giro”.
Foto: Francesco Arena, bocuse.fr