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31 Ottobre 2012 Aggiornato il 2 Luglio 2014 alle ore 21:43

Street food. La ristorazione del futuro passa da qui, caciucco a 20 € incluso

Il futuro della ristorazione è nello street food. E non solo quello in movimento. La ristorazione stanziale può e deve appropriarsi di alcuni suoi
Street food. La ristorazione del futuro passa da qui, caciucco a 20 € incluso

Il futuro della ristorazione è nello street food. E non solo quello in movimento. La ristorazione stanziale può e deve appropriarsi di alcuni suoi elementi per declinarli: asciuttezza, velocità di preparazione e di servizio, grandi numeri. Il ristorante del futuro prossimo venturo è un genere di bistrot all’italiana che sul recupero delle logiche di soddisfazione dell’avventore di passaggio, penso alla trattoria del camionista, deve fondare un nuovo sistema. Attento alle esigenze dei nuovi nomadi del cibo pronti a inseguire la novità dettata dall’agenda del web, dai commenti dei gruppi impegnati sui social network, dalle immagini che scorrono nei flussi delle bacheche elettroniche, dai movimenti delle macchine da presa che reinterpretano i gesti tra i fornelli. I celebrity chef piuttosto che le star factory hanno bisogno di platee vaste per poter offrire eccellenze e garantire ricerca del meglio. Occorre invertire i termini o meglio fare andare d’accordo quelli che sembrano opposti: grandi numeri – grande qualità. Roma, nella sua effervescenza si sta avvicinando velocemente ai modelli e ai temi di Parigi, Londra, New York.

Eataly Roma è il prototipo quantitativo, forse non qualitativo in termini assoluti, ma è soprattutto il riferimento per la capacità di attrarre numeri importanti, quasi esagerati con i suoi ristorantini e l’assetto da movimento perenne dei suoi visitatori esemplificato dalle osterie romane che ruotano e si adattano alla logica street food.

Glass Hostaria è il prototipo della ristorazione stellata con sala piena, assenza di fronzoli, innovazione, architettura post industriale che da piccolo (50 posti) gioca la carta del grande con un altro player che bada ai numeri oltre che alla sostanza (Roscioli) per lanciare un nuovo locale polifunzionale con numeri elevati a sedere e commensali che possono mangiare scegliendo dal banco piuttosto che da una carta piuttosto che acquistando e portando via. Già il nome scelto, Romeo, in ricordo dell’officina Alfa Romeo che era lì e rimanda all’idea di movimento. L’architettura e il frazionamento degli ambienti comunica il movimento già dall’ingresso che è una rampa veicolare.

Gabriele Bonci è l’esempio della rete e del peer to peer. Il punto-punto e il network trovano nello “storico” Pizzarium, nell’asciutto No.Au, nel forno Baeckerei di impronta decorativista, il catering della Sfera del banqueting, le consulenze all’Open Baladin piuttosto che a Otaleg il sistema per creare relazioni e potenziare il personal brand e non più quello dell’esercizio commerciale. Nomade anche lui.

E gli esempi potrebbero continuare a Roma con Arcangelo Dandini che abbandona l’idea del ristorante tout court a favore del bancone quasi take away, di Tricolore che ha innalzato il panino a regola, di Rosti che dilata il tempo di consumazione, come a Milano con la Cascina Cuccagna di Nicola Cavallaro e Pisacco di Andrea Berton. E ovviamente il prossimo Eataly.

E si può arrivare agli chef. Moreno Cedroni con il suo Anikò, aperto quando lo street food si chiamava cibo da strada. O il visionario Davide Scabin che con il linguaggio del design ha portato il cibo a mutare forma: Twingo Pasta, Raviolo Shake piuttosto che Fast Carbonara e il progetto di alzare il numero di quanti vorrebbero sedersi alla sua tavola. O i pizzaioli come Gino Sorbillo, stanziale con la pizza napoletana da forno, e mobile con quella fritta che comporta minori problemi di attrezzatura quando non c’è forno.

Il Salone del Gusto 2012 ancora una volta ha riproposto il cibo da strada e non solo nell’area dedicata. Ce lo racconta Gregorio Di Agostini che lo ha scandagliato. E chi pensa che lo street food sia solo sinonimo di low dovrà ricredersi. Anche con un caciucco in piedi da 20 € [Vincenzo Pagano]

Cancelli appena aperti mi fiondo in Piemonte. Colazione da Gabriele Bonci, nello stand di Mulino Marino e de La Granda. Subito un hamburger con guanciale e pecorino romano e tre generosi tranci della sua pizza: zucchine e mozzarella, tutta melanzane e crudo di baccalà con salsa di pomodoro. E’ un campione, che non riesco a commentare ma solo a idolatrare.

In questa strana geografia, il Piemonte confina con le Marche. Dal suo ambasciatore Mauro Uliassi, con il Camper Uliassi Street Good, prendo un trapizzino imbottito di pollo alla cacciatora e il panino di porchetta&porchetta. Reinterpretazioni sfiziose di grandi classici, ma da un numero 1 come lui mi aspetto sempre qualcosa in più.

Non è ancora mezzogiorno e non sono ancora entrato nella sala dedicata ai vari mangiari di strada, e ormai il destino del mio primo giorno al Salone del Gusto è segnato. Direzione area street food.

Giro l’angolo, non capisco cosa ci faccia il cacciucco: penso ad un errore logistico o a un mio limite, dato che pur essendo un fanatico del brodetto – cugino sambenedettese della livornese zuppa di pesci – non sono mai riuscito a mangiarlo in piedi. Ma accetto la sfida e mi sistemo alla meglio su un bidoncino, uno dei pochi disponibili. Porzione extra, gustosa, intinta fino all’ultima goccia di brodo con l’ultima briciola di pane. Davvero very goodde. Bicchiere di Chianti e poi ponce livornese, ma me lo giocherò più avanti.

Sì perchè cibo di strada chiama Sicilia. Tris sulla ruota di Palermo, meglio sulla focacceria San Francesco. Arancino, ops arancina, di carne, pane e panelle, poi cannolo. E potrei rimanere qui tutto il giorno a celebrare questa capitale mondiale del mangiare per strada.

Dovere mi chiama, evito il cartoccio di olive all’ascolana per motivi anagrafici, e mi indirizzo verso i laboratori del gusto dove mi aspetta un esotico excursus tra formaggi e vini delle Canarie. Ma nel frattempo inciampo in isole di street food sparse tra presidi Slow Food e volti di Terra Madre.

Prima il double di ostriche: quelle naturali della Bretagna e quelle selvatiche native di Colchester. Poi in senso diamentralmente opposto il panino con Cicotti di Grutti, tanto sconosciuto quanto libidinoso. E’ un “sottoprodotto” della porchetta, nel senso che si prepara con i tagli minori del maiale – orecchie, zampetti, stinco, lingua, trippa e altre interiora – posti nel forno proprio sotto la porchetta da cui succhia il grasso e le spezie che la condiscono e procede con una cottura lenta e prolungata che garantisce succulenza e morbidezza. Sfida tutta umbra al kebab.

Mi imbatto, infine, anche con il Caciobus a cui chiederei volentieri un passaggio. Ma sarebbe troppo.

[Immagini: Gregorio Di Agostini]

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