Il San Marzano ha il suo Custode del Tempio
Paestum. La terra l’abbiamo uccisa e non contenti abbiamo piallato quello che cresceva. Senza troppi giri di parole è quello che è successo nel territorio in cui si coltivava il San Marzano, una volta il re dei pomodori e vanto dell’industria conserviera campana. L’Oro Rosso che però inquinava il fiume e portava tonnellate di pellicine e di semi a buttarsi nel mare dei turisti, tra la Costiera Amalfitana e i Golfi delle isole. La marea rossa da colpevolizzare come se il problema fossero i pomodori piuttosto che gli uomini che li trasformavano e gettavano gli scarti delle lavorazioni. Poi qualcuno si è anche accorto che il San Marzano è una bestia nera della coltivazione intensiva e di chi pensa a una, relativa, poca fatica. Una pianta da trattare con rispetto che certo non ti fa migliorare il già secco conto economico. Ed ecco allora la trovata, l’OGM della “buatta”, del barattolo da riempire con altri pomodori più facili da coltivare che semmai non avranno la consistenza del re che messo a nudo senza pelle rivelava una tramatura unica e inimitabile. Ma che vuoi che sia con mezzo mondo che apre barattoli per fare il sugo. Bucce più spesse che proteggono meglio il pomodoro ma che sembrano non far passare più il sole come faceva l’originale. Che a un certo punto si perde, scompare nei mille rivoli di coltivazioni che finalmente si sono liberati dall’incubo della mazzarella, del sostegno che reggeva la pianta bella erta da cui pendevano i grappoli rossi di sole. Ormai ridotti a essere comparse oleografiche sulle etichette dai nomi gentili e dal passaporto dubbio. E così cade nell’oblio il Re e i suoi sudditi trasformatisi in turisti del mare lo rinnegano contenti che non si parli più della marea rossa che rovinava i bagni e le estati.
Il territorio è quello che è, basta ricordare come la mancanza di rispetto abbia generato la tragedia di Sarno per comprendere come un pomodoro possa scomparire. E il San Marzano, causa poca lungimiranza ed epidemie, di fatto scompare dalla tavolozza genealogica prima che qualcuno abbia modo di catalogare il suo DNA inimitabile. Fine della storia. Se non fosse che un po’ di saggi (e di matti) si mettano in testa di far conoscere a quelli nati dopo gli anni ’80 l’esistenza di un Re. Raffaele Vitale è uno di questi. Architetto per (iniziale) lavoro, Gran Custode del San Marzano per convinzione. Nel suo ristorante Casa del Nonno 13 nella frazione Sant’Eustachio di Mercato San Severino, un tiro di schioppo dall’uscita del casello dell’autostrada A30 Caserta – Salerno (segnatelo sui navigatori in discesa dal nord verso le coste e il mare), ha creato un tempio per la degustazione del pomodoro che più si avvicina all’antico San Marzano, lo Smec 20 “ritrovato” nella metà degli anni ’90 dai tecnici del centro ricerche della ex Cirio (altro de profundis dell’agricoltura campana). Da tempio a tempio il passaggio è stato bello e Raffaele Vitale è sbarcato a Paestum per proporre al Salone della Mozzarella le sue interpretazioni che ovviamente non potevano prescindere dal pomodoro, Smec e Cirio 3. L’analisi di Raffaele, al solito, è bella lucida. Per il pomodoro non è successo quello che è accaduto per il vino e ora, per restare al territorio, per la pasta di Gragnano: manca il ricambio generazionale, il passaggio di esperienza e la capacità di innovare in termini di comunicazione e di marketing. Insomma, il San Marzano non è ancora un prodotto di moda in grado di far immergere nasi e discutere su consistenze. Poco male, sono sicuro che come altri prodotti (tra cui proprio la mozzarella di bufala) arriverà il momento di gloria).
Per il momento, ecco un recupero filologico di Vitale con la spettacolare merenda a base di pane e pomodoro che i contadini usavano portare in sporte di latta per ritemprarsi dalle fatiche sui campi. Raffaele va a prendere un altro dei classici della conservazione, il “boccaccio” di vetro e lo riempie di sapore inebriante: un pane di lievito madre, un olio extravergine da rito bacchico e il pomodoro in gran forma riscaldato il giusto. E pezzetti di mozzarella che contribuiscono ad aumentare quella stupenda sensazione di freschezza che il pomodoro riesce a conferire.
Parlo un attimo della mozzarella per segnalare che, senza essere talebani e voler per forza ritrovare il gusto lungo “Mozzarella Street” al secolo la SS 18 Tirrenica Inferiore, ci si può affidare al fornitore del Casa del Nonno 13, il Caseificio Roberta di Fisciano (altra tappa da navigatore per tutti coloro che saltano nell’itinerario Battipaglia e Paestum). Il barattolo delle delizie è uno di quei piatti che non ti stancheresti di continuare ad assaggiare: potenza della semplicità.
E Raffaele confessa subito l’attaccamento alla tradizione e il suo lasciar fare ad altri innovazione. Non è nelle nostre corde. Anche se al suo arco ha parecchie frecce e non soltanto a tavola. La sua bella idea delle Strade del Pomodoro, come lui stesso spiega riconducibile alle diverse strade dei sapori, si avvantaggia di un progetto di recupero di architettura rurale che vorresti vedere realizzato in tempi strettissimi. Le strade avrebbero posti di ristoro costituiti dagli antichi casoni restaurati in cui si acconciavano i pomodori durante il lungo periodo di raccolta dell’estate. Uno spettacolare recupero del territorio, o di riqualificazione se preferite gergo più alla moda, che ti porterebbe a degustare San Marzano all’ombra di qualche tettoia vitata inebriandoti dei profumi che solo un campo coltivato a pomodori a regalare.
In attesa di un giro per campi e casoni, ecco l’inno omaggio alla pasta e ai tre templi di Paestum. Tre colonne della cucina di Raffaele declinate per illustrare il passaggio generazionale: il nonno-pacchero, il figlio-mezzo pacchero e il nipote-calamarata che illustrano un percorso di continuità ed evoluzione. Il ripieno è un percorso tra i classici della Casa: provole e patate (di Montoro); mozzarella con pane e colatura di alici di Cetara; ricotta e basilico. Ogni boccone è un allargarsi sullo spettro che il latte di bufala ben trattato (e ben allevato) sa regalare. Transito dalla consistenza solida della provola alla dolcezza della mozzarella per perdermi nella spumosità della ricotta che si sposano alla perfezione con la cottura della pasta (l’Università di Fisciano è a due passi) e le note iodate e verdi che fanno capolino nella composizione. Un omaggio degno di Poseidone e di Hera!
Raccontiamo memorie, continua Raffaele, e io gli credo perché mi manda a zonzo nel tempo e senza dover trovare una De Lorean e uno scienziato pazzo. Mi basta una forchetta per riprendere il filo dei sapori interrotti dalla mancanza di una visione strategica che ha messo in ginocchio i veri banchieri dell’Oro Rosso, i contadini che conoscevano terra e prodotto. Ridotti in pochi, come Ciccio spaventato dallo stesso Raffaele alla ricerca della bontà dei campi perché pensava a una nuova forma di esazione. O di vessazione. Che è la stessa storia per queste piantine da curare con passione. Una nuova stagione, anche per i più giovani, potrà rinascere facendo però molta attenzione al richiamo di sirene che promettono guadagni miracolosi impossibili da conseguire o alle promesse di qualche venditore di chincaglierie a piede libero in vena di affari da retrobottega. Il percorso più redditizio anche dal punto di vista culturale non può che transitare sul recupero architettonico e sulla costruzione di un circuito in grado di attrarre i flussi turistici in movimento lungo le direttrici della Costiera e di Pompei. Bisogna vendere il “terroir” prima delle confezioni, peraltro bellissime, pena una moda effimera o da GDO di lusso che ricaccerebbe allo zero virgola qualcosa il ritorno economico di chi sui campi ci lavora.
Ma Raffaele non fa mancare una nota di contemporaneità con la sua chiusura. Un delizioso gelato di latte di bufala con marmellata dei due grandi protagonisti della sua tavola: lo Smec 20 e il Cirio 3. Ecco la sintesi. Bisogna tutelare i produttori per tutelare i prodotti. Mi hai convinto Raffaele che mi rilancia “Vedrai, Ciccio è fantastico”. Gli credo, come non potrei, mentre stringo la mano al futuro in cucina: Valentina Trotta e Eduardo Estatico. Fantastici come il resto.
Foto: Francesco Arena