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24 Maggio 2019 Aggiornato il 24 Maggio 2019 alle ore 17:15

Moreno Cedroni precisa: ecco il manifesto che spiega che non siamo contro i food truck ma contro l’assenza di regole

Fermi tutti: gli chef stellati non sono contro i food truck, le pescherie, le macellerie, gli agriturismi. Ma sono contro la giungla e la mancanza di
Moreno Cedroni precisa: ecco il manifesto che spiega che non siamo contro i food truck ma contro l’assenza di regole

Fermi tutti: gli chef stellati non sono contro i food truck, le pescherie, le macellerie, gli agriturismi.

Ma sono contro la giungla e la mancanza di regole.

A mettere i puntini sulle i è Moreno Cedroni, chef del due stelle Michelin La Madonnina del Pescatore, che dirige anche uno dei luoghi di street food più apprezzati d’Italia: Anikò a Senigallia.

Siede nel direttivo della Fipe, la Federazione Pubblici Esercizi Italiani, e ha partecipato a eventi legati allo street food.

Raggiunto al telefono ha sorriso sul travisamento della notizia spiegando che non c’entrano nulla i food truck, ma il manifesto ha richiamato l’attenzione su quegli esercizi commerciali che non hanno requisiti per essere considerati pubblici esercizi, eppure si comportano come se lo fossero.

Pescherie e macellerie che terminata la normale attività di vedita tirano fuori sedie e tavole e improvvisano un ristorante di pesce o di carne. Senza avere spazi adeguati, attrezzature, servizi igienici.

Il punto, quindi, è avere parità di trattamento e di condizioni (e di balzelli): la pescheria che vuole fare il ristorante di sera può farlo seguendo tutte le regole cui sono chiamati a rispondere i ristoranti.

Semplice. O forse no?

Giudicate dal manifesto firmato dagli 80 chef stellati.

Il manifesto degli chef stellati contro la concorrenza sleale

La cucina italiana: orgoglio degli italiani, ispirazione per gli stranieri, ali e radici per chi viene e torna nel nostro Paese. In numeri, la nostra ristorazione vale 300mila imprese, 85 miliardi di fatturato e 43 miliardi di valore aggiunto all’anno per 1 milione di occupati. Meno puntuale, ma non meno strategico, il valore intangibile del settore in termini sociali, storici, culturali, antropologici e come volano dell’attrattività turistica e dell’intera filiera dell’agroalimentare del Paese. Ora, poi, il settore sta vivendo una popolarità senza precedenti, con gli Chef famosi come attori e contesi come influencer, a dimostrazione che la cucina – da sempre strumento di comunicazione – è appetibile anche come strumento di consenso.

Bene, insomma, ma non benissimo. Questi risultati sono la punta di un iceberg fatto del lavoro di centinaia di migliaia di imprese che, con la loro professionalità, creatività e quotidianità, fanno la forza di questo settore, che riceve a parole grandi pacche sulle spalle, ma nei fatti rischia oggi un impoverimento senza precedenti.

Ogni giorno nelle scelte politiche si incentivano settori che effettuano di fatto somministrazione, senza essere sottoposti alle stesse regole che si applicano alla ristorazione e ai pubblici esercizi in generale.

Ci riferiamo agli operatori del settore agricolo, ai circoli privati, al terzo settore, ai negozi di vicinato, agli home restaurant, allo street food etc.  Perché se non ti chiami “pubblico esercizio”, non importano i servizi igienici, la presenza di spazi per il personale, gli ambienti di lavorazione idonei, la maggiorazione sulla Tari e il rispetto delle normative di Pubblica Sicurezza.

La disparità di condizioni non genera nel mercato soltanto concorrenza sleale, ma finisce per impoverire il mercato stesso nel momento in cui le attività di ristorazione chiudono, magari per reinventarsi in esercizi più semplici, dove tagliare i costi del servizio e di preparazione, con effetti immaginabili sulla qualità del prodotto, sui rischi alimentari dei consumatori, sull’occupazione del settore e l’attrattività delle nostre città.

Non chiediamo meno regole: chiediamo che vengano applicate le stesse regole per la stessa professione, anche a tutela e a salvaguardia dei 10 milioni di clienti che ogni giorno frequentano i Pubblici Esercizi.

Non chiediamo meno concorrenza: auspichiamo, anzi, che ce ne sia sempre di più, ma per migliorare il mercato, non per renderlo più fragile.

Non chiediamo privilegi o corsie preferenziali: chiediamo alle Istituzioni più attenzione e un tavolo, promosso dai ministeri competenti, con la partecipazione dei diversi attori della filiera – che apparecchi una visione strategica complessiva e consapevole per il settore.

I sottoscrittori di questo appello hanno fatto degli investimenti qualitativi e del rispetto delle regole, un punto di merito e uno stimolo per migliorare la qualità del settore, tutelando le scelte di milioni di consumatori.

È così che vogliamo difendere la categoria, quella delle imprese della ristorazione: salvaguardando il contributo che offre all’economia italiana, un contributo di varietà e, soprattutto, di qualità, tratto distintivo del Food in Italy  che tutti conosciamo. E amiamo.

Si trasmettono le recenti sentenze del Tar Lazio nn. 5195/2019 (allegato 1) e 5321/2019 (allegato 2) con le quali viene effettuata una dettagliata disamina circa l’importanza della corretta individuazione dei criteri distintivi dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande e quella di consumo immediato attuabile da artigiani, panificatori ed esercizi di vicinato.

La prima delle due decisioni vede ad oggetto il provvedimento che inibiva la cessazione dell’attività di somministrazione abusivamente intrapresa da un titolare di esercizio di vicinato e laboratorio artigiano in quanto aveva “allestito, nella quasi totalità, il locale con tavoli e sedie abbinabili ed effettua[va] la vendita di pasta, carne, verdura, riso, sformato di patate a porzione e non a peso..”.

Il Collegio, chiarendo che l’ordine di cessazione non era fondato sulla sola abbinabilità dei tavoli e delle sedie, richiama l’importanza di valutare unitariamente le complessive caratteristiche delle modalità con cui viene offerta la possibilità di consumare nel locale i prodotti alimentari destinati alla vendita. In particolare, sono stati ritenuti indici di “un’ordinaria modalità di somministrazione assistita” la vendita a porzione e non a peso, la distribuzione di posate in plastica, la vendita di monoporzioni non sigillate all’origine – quindi prodotte in loco – e la circostanza che la quasi totalità della superficie risultava occupata da tavoli e sedute abbinate, considerando, invece, irrilevante che fossero alti e che le sedute fossero prive di braccioli, potendosi trattare di semplici scelte stilistiche di arredo. Dunque, tale complesso di elementi, apprezzati unitariamente secondo la comune esperienza, hanno indotto il Collegio a ritenere sussistente la presenza di un servizio di somministrazione.

 

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