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Pizzerie
12 Ottobre 2012 Aggiornato il 7 Aprile 2019 alle ore 14:17

Pizza a Napoli e a Verona. Guida ad uso del Gambero Rosso e non solo

La guida della pizza dalla Margherita di Gino Sorbillo alla focaccia di Padoan passando per la pizza a taglio romana di Gabriele Bonci
Pizza a Napoli e a Verona. Guida ad uso del Gambero Rosso e non solo

La guerra della pizza tra Napoli e Verona, innescata dall’esclusione delle pizzerie napoletane dall’eccellenza della Guida del Gambero Rosso 2013 segnalata con i tre spicchi (novità dell’anno subito da indicare come Massimo Casino (im)prevedibile), le accuse di razzismo culinario e il dietrofront di Giancarlo Perrotta hanno scosso gli animi (e le pance).

Oltre alla quasi assodata considerazione che sembra improponibile una guida alle pizzerie senza eccellenze napoletane (a proposito, qui ci sono i primi 36 nomi da andare ad assaggiare per i volenterosi che cercheranno di mettere la toppa sull’edizione 2014) c’è una domanda di metodo cui rispondere. Qual è la madre di tutte le pizze, quanti tipi se ne conoscono e chi sono i campioni? Prima di stabilire se è migliore la pizza di Napoli o quella di Verona forse vale la pena accertare le tipologie.

Proviamo

Pizza “tipo Napoli”. La pizza napoletana, madre di tutte le pizze, detta anche a portafoglio o a libretto per indicare la flessibilità eccezionale dell’impasto che non vuol dire gommosità. Mi piego ma non mi spezzo, insomma, nonostante il tentativo dell’Europa di delegittimare la riserva di nome e il tribolato percorso della STG che ha portato alla vittoria parziale con il decreto qualità e il lavoro che il costituendo Consorzio di Tutela dovrà fare per assicurare il recepimento della direttiva a livello europeo. Il passo falso di Giancarlo Perrotta e la spietata analisi di Chiara Quaglia durante l’anteprima di Pizza Up dovrebbe convincere i pizzaioli napoletani lacerati da anni di guerre fratricide che è venuto il momento di superare antichi dissapori in nome del bene comune.
Campione: Gino Sorbillo perché sa fare una ottima pizza napoletana e riesce a veicolare i messaggi anche dall’altra parte del mondo. Al suo arco anche la nuova Casa della Pizza che potrebbe diventare la Fondazione che manca a Napoli. E poi c’è Enzo Coccia, con un piede a Napoli e uno negli States, pioniere della “pizza buona”.
Seguaci: Massimiliano Ceccarelli che insieme a Giancarlo Casa, titolare della Gatta Mangiona  e socio di Sforno, è il deus ex machina dell’operazione impossibile: fare una pizzeria che potrebbe scontentare i romani abituati alla scrocchiarella e i napoletani che pensano alla città natale come unica possibilità di mangiare una pizza come dio comanda. Un’idea da lazzaroni.

Pizza “tipo Paese”. Il primo “surrogato” per i tradizionalisti duri e puri della pizza napoletana. Come nelle antiche roccaforti, il territorio del Regno della Pizza non andava oltre la stazione centrale da una parte e Posillipo dall’altra. La pizza paesana è quindi in questa accezione feroce la pizza imitata.
Campione: Franco Pepe. Dopo la conquista dei Tre Spicchi sulla guida gamberacea, lo smacco per i “napoletani” è stato duplice. E’ come perdere al derby Roma-Lazio o Milan-Inter, vedere la contrada avversaria vincere il Palio a Siena. Il turbodiesel di Caiazzo in realtà lascia la pergamena conquistata a Roma, probabilmente per la maggiore facilità di parcheggio, perché domenica inaugura la nuova pizzeria un po’ gourmet un po’ alto standing con la terrazza che va prenotata per mettere insieme pizza e romanticismo. La ricetta della pizza di paese è la più varia, ma l’elemento fondamentale è l’impasto a braccia umane tuffanti.
Seguaci: Chiara Quaglia. Il molino delle meraviglie, con la Petra farina che è piuttosto un semilavorato, stravede per l’artigiano in grado di rimettere in discussione l’egemonia della pizza “tipo Napoli” come ha dichiarato durante l’evento Pizza Up da molti ormai considerato la testa di ponte per l’invasione del verbo veronese in terra napoletana.

Pizza “tipo a Metro”. L’Università della Pizza era questa prima che il marketing e un certo snobismo verso le grandi metrature unite alla convinzione che il troppo storpia facessero venire meno l’attenzione dei gourmet 2.0. Una ricetta che assomiglia a quella del pane, come ha spiegato Ciro Aiello a Scatti di Gusto, e che ha creato il mito di Vico Equense, tappa sulla costiera dei sapori.
Campione: Luigi Dell’Amura. L’edificio anni ’70 è una fabbrica di divertimento per grandi e piccini. Ma è anche il luogo dove si sono tenuti incontri e conferenze degli operatori del settore come La pizza centimetro per centimetro, la tradizione molecola per molecola. Le principali differenze con la madre “tipo Napoli” sono le 2 ore di lievitazione contro le 8/9 della napoletana, la minore temperatura di cottura, la stesa della pasta e la posa degli ingredienti (non si inizia con il pomodoro).
Seguaci: Gennaro Esposito. Lo chef due Stelle Michelin e campione in Campania per L’Espresso è tra i più forti ambasciatori della pizza a metro e della pizza buona che ha fatto conoscere a Ferran Adrià in visita nella regione.

Pizza “tipo Bari”. Farina 00 pugliese, sale di Margherita di Savoia, pomodoro pelato pugliese, mozzarella fior di latte barese, olio extra vergine di oliva sempre pugliese, pomodori Regina di Polignano, ricotta marzotica di Conversano e rucola selvatica barese. E poi ancora diametro non superiore 35 cm, spessore uniforme e massimo di 0,2 cm, croccantezza, digeribilità, basso carico glicemico. E’ l’Autentica pizza barese a chilometro zero. [citynews]
Campione: Gaetano Tamma della Pizzeria Baraonda. Se chiedete a un barese un indirizzo di riferimento vi dirà Via Tenente Gaetano De Vitofrancesco, 29, il tempio dove si mantiene diversa la barese dalla napoletana. La “tipo Bari” è bassa, bassissima, quasi senza cornicione e molto larga. Viene spianata (orrore per i napoletani) con un piccolo matterello e poi a seguire con le mani. Prima si usava anche lo strutto, ora si va di olio extra vergine di oliva.
Seguaci: Giuseppe Margiotta, presidente della Samer, l’azienda dell’ente camerale che si occupa di assistenza tecnica per la qualità. “L’obiettivo è di garantire il made in Bari. Il mercato è confuso: i nostri prodotti sono costantemente minacciati da falsi che giocano su assonanze di nomi e etichette. E confusi, inevitabilmente, sono i consumatori”. Ecco, appunto.

Pizza “tipo Roma”. La scrocchiarella è la pizza che mangerete seduti e non c’è verso per un napoletano di comprendere come un largo disco a guisa di frisbee possa incontrare il piacere del palato senza piegarsi a portafoglio. Dalla Capitale ci si chiede come si possa digerire una pizza alta e con un cornicione ancora più alto. Inconciliabilità che risaliranno al tempo dello Stato Pontificio, probabilmente.
Campione: il Cassamortaro ossia Ai Marmi (Panattoni) che su Viale Trastevere è quasi un’istituzione. La vulgata vuole che siano necessarie 10 pizze romane una sopra all’altra per arrivare allo spessore della napoletana. Non posso illuminarvi poiché l’ultima pizza “tipo Roma” l’ho mangiata nel 1986, anno di sbarco a Roma, in una pizzeria di fronte al Palladium. Poi il buio assoluto.
Seguaci: La Griglietta. Nel solco orami decaduto della pizzeria-ristorante d’antan c’è un indirizzo a Prati dove trovi “quella pizza scrocchiarella con rucola, fiordilatte e pomodorini che te ne mangeresti a volontà sapida e con l’olio buono” [cit.]

Pizza “tipo a taglio”. Potremmo versare fiumi e fiumi di inchiostro, padon, di byte, per elogiare uno dei dello Street Food, il vero equivalente della pizza napoletana da passeggio quella che studenti, operai, professionisti e gourmet piegano a 4 e mangiano camminando. A Roma, al netto del centro storico dove c’è l’ammenda anti-panino, la pizza a taglio o da asporto sta bella tosta con il suo condimento pronto a sgocciolare forse meglio della cugina di mare. La pizza a taglio è un rito ed è la diretta derivazione delle attività di panificio.
Campione: Gabriele Bonci. Il leader maximo che ne è diventato profeta con un buco 10×10 frequentato quanto i Musei Vaticani con cui condivide la stessa linea della Metro (la A) e un bel po’ di visitatori che squadernano le guide in tutte le lingue del mondo deliziandosi con abbinamenti al limite della goduria iconoclasta che ha fatto meritare all’autore l’appellativo di Michelangelo della Pizza. Anche se al di là del Volturno la chiamerebbero Focaccia o in maniera infelice Peppino pur di non confrontarsi con l’unico ambasciatore che è volato in Australia al Crave Sidney International Food Festival a spiegare lievitazione, impasti, farina (per la verità, a Gino Sorbillo hanno chiesto di spiegarlo in una puntata di Masterchef dello stesso continente da Roma), c’è da sottolineare che sa fare anche le pizze tonde e per giunta “tatin” casomai con funghi porcini.
Seguaci: tantissimi ma su tutti Alessandro Ricciardi del Caratello. I corsi di Gabriele Bonci sono sempre e costantemente sold out tanto che all’inizio hanno provocato qualche delusione per troppo affollamento. Metteteci anche la Prova del Cuoco, il libro, i blog, i video, i fan, noi e avrete l’effetto virale della pizza “tipo a taglio”.

Pizza “tipo Verona”. Ricordo personale: quando pensavo ancora di avere una qualche compatibilità con la neve e con gli sci, mi lasciai convincere per una settimana bianca mood scolastico al Passo del Tonale. All’inizio degli anni ’80, armato di Moon Boot di ordinanza e piumino anonimo per evitare la gogna simil paninara; mi ritrovai al tavolo di una pizzeria della città di Giulietta. Pizza sottile, biscottata e con su le sottilette. Fu l’inizio della guerra Napoli-Verona con tutte le pizze che restarono nel piatto. Di quei racconti, Napoli era farcita e il gene si è risvegliato nell’occasione dell’assegnazione dei Tre spicchi a Simone Padoan. Che ha dovuto subire un bel po’ di insulti. Non bello. La pizza “tipo Verona” potrebbe essere meglio rappresentata dal termine focaccia per quanti credono che l’alveolatura spinta e una consistenza al limite degli impasti da dolce voluminoso siano le caratteristiche. In realtà, la base è la stessa: farina, acqua, sale, si impasta, si stende, si farcisce, si inforna, si serve per lo più in forma tonda.
Campione: Simone Padoan con il suo I Tigli da poco ristrutturato. Locale bellissimo, sembrerebbe quasi un ristorante.
Seguaci: Renato Bosco (Saporè) e Marzia Buzzanca (Percorsi di Gusto). Bosco è cresciuto tantissimo e nel confronto alla Città del Gusto è riuscito a imporsi di una limatura su Franco Pepe grazie a una pizza focaccia molto soffice e malandrina. Anche lui ha rivisitato il concept di vendita. Marzia Buzzanca ha messo a punto una pizza che ripercorre lo stesso schema con l’uso del lievito madre che può essere considerata la grande differenza con la pizza napoletana (anche se Ciro Salvo ha dimostrato che una pizza Margherita STG si può fare con il lievito madre: e che pizza).

Pizza “tipo Francia”. Quella più famosa è la Roquefort che è andata di traverso proprio agli ignari pizzaioli napoletani per via della riserva di nome sulla denominazione STG e che ha costretto ad ulteriori sforzi per la tutela (si è incavolato anche il sindaco, ma per altri motivi). Nel mio girovagare in Francia non ricordo caratteri tali da far assurgere la pizza francese a genere entusiasmante. Un camioncino sulla costa bretone nei pressi di Caen ha lasciato un ricordo indelebile e la curiosità ancora inappagata di capire cosa avessero utilizzato per fare quell’impasto. Grano, fu la risposta. Poco convincente.
Campione: Pizza Pino. Pomodoro, mozzarella, salame piccante, uovo fresco, olive e peperoni marinati. E’ la Palerme, crocevia tra la scrocchiarella, la 4 stagioni e i prodotti semipronti per la casa (da racconto).
Seguaci: Bistrot Napolitaine. Sempre a Parigi, la “sorpresa” degli amici che ti vogliono far vedere come sono bravi a fare la pizza oltralpe. Su avenue Franklin-D.-Roosevelt, propone l’insegna scritta in italiano e un parmesan cui chiedereste il passaporto.

Pizza “tipo Londra”. Ormai mezzo mondo sa che la pizza napoletana o la mangi a Napoli o la mangi nei Paesi anglosassoni. Prima città è, ovvio, Londra con le sue pizzerie e le sue catene. Qui mettono attenzione particolare sul fiordilatte e sulla mozzarella di bufala, gli ingredienti più difficili da importare e da procurarsi. L’impostazione è napoletana fino al midollo. Almeno per quelle sicuramente etichettabili come pizza.
Campioni: Rossopomodoro. Per alcuni una bestemmia (come si fa a mangiare pizza napoletana a Londra), per altri una salvezza per concedersi un pasto frugale e low cost. Al solito, in medio stat virtus: mangerete una pizza abbordabile e abbastanza buona a seconda del pizzaiolo residente in quel momento. Di sicuro partite avvantaggiati.
Seguaci: molte le insegna, ma Santa Lucia richiama “troppo bene” le atmosfere e la melanconia di chi ha lasciato il Golfo o degli stranieri che vorrebbero ritornare.

Pizza “tipo Oltreoceano”. Non so perché mi viene in mente l’espressione di meraviglia di Dan Peterson al commento dell’ennesima prodezza di un gigante del basket. Sarà per via dell’abbondante quantitativo di salame calabrese iperpiccante e sue derivazioni che elargiscono a piene mani sulla Pepperoni. Sarò stato particolarmente fortunato a scegliere in un viaggetto NYC Stanford nel Connecticut la pizza del drago. Wow. Molto differente da una pizza napoletana e se volete qualche indirizzo in caso di trasferta, eccoli qui. Poi ci sono quelli che importano il nome pizzà e ci mettono la crème fraîche, mon Dieu. E chi preferisce l’aragosta, parbleu, in puro stile fusion.
Campione: della pizza napoletana in terra americana è la iron chef  Elisabeth Falkner che si è aggiudicata il trofeo della classica al Campionato Mondiale di quest’anno.
Seguace: Jonathan Gold Smith. Con la sua Spacca Napoli pizzeria di Chicago è uno degli ambasciatori della pizza napoletana come da tradizione in America. A Festa a Vico ha spiegato il suo mantra: la pizza può essere solo napoletana.
Seguace: in Giappone chi se non Akinari ‘Pasquale’ Makishima può essere il messaggero della pizza napoletana. Presente in ogni manifestazione a Napoli in cui si parla di pizza, si muove sempre in gruppo con un folto nugolo di discepoli pronti a battersi e a vincere campionati e olimpiadi in nome del disco rosso di cui sono fervidi ammiratori (anche con pubblicazioni cartacee di grande pregio).

Ok mancano altre ennemila declinazioni, ne sono sicuro. Ma possiamo sempre chiamarle pizza?

P.S. A momenti dimenticavo la pizza “tipo amatoriale” fatta a casa. Campioni: Carlo Labate con le sue Lezioni di Pizza, qui in pochi passaggi per imparare a farla a casa 🙂

Vincenzo Pagano
Fulminato sulla strada dei ristoranti, delle pizze, dei gelati, degli hamburger, apre Scatti di Gusto e da allora non ha mai smesso di curiosare tra cucine, forni e tavole.
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