La piena delle Dop va oliata o arginata?
“L’olio del frantoio mi fa paura”. Scende il gelo nella sala delle conferenze del circolo della Stampa Estera a Roma dove si presenta l’ottava edizione del Premio Sirena d’Oro di Sorrento dedicato agli oli Dop.
E’ quasi l’ora del pranzo e gli addetti al servizio catering si preparano ad accogliere la platea di giornalisti ed esperti per uno spuntino dove l’olio Dop è il protagonista. Pane e olio a profusione, bicchierini per gli assaggiatori più esigenti. La conferenza volge al termine. E’ l’ora delle domande. Una giornalista spagnola prende la parola dopo gli interventi dei presenti che per un’ora abbondante hanno esaltato le magnifiche sorti e progressive dell’olio a denominazione protetta.
“All’olio del frantoio preferisco il marchio”, rincara la giornalista. Un’affermazione tranchant per la quale non ci sono commenti né richieste di chiarimento.
A dire il vero il discorso è più articolato e tra quello che la corrispondente dice e quello che indoviniamo tra le righe, il suo ragionamento suona più o meno così: lo sanno tutti che l’Italia è il paese delle eccellenze agroalimentari ma questo non significa che si debba disprezzare chi compra l’olio a pochi euro se questo contribuisce a diffondere il verbo anche tra i più incalliti consumatori di burro. Il riferimento è ai Nordici, d’Italia e d’Europa, ma anche allo scandalo, ormai di qualche mese fa, dell’olio venduto per extravergine a 1,99 euro sugli scaffali di un supermercato. E comunque, tornando a bomba, chi garantisce il consumatore che l’olio del frantoio sia migliore di quello a marchio, anche quando il marchio è scadente?
La domanda cade nel vuoto. Non sembra il giorno delle questioni fondative. E comunque il morale non è altissimo. C’è ancora da digerire quel – 6% dei volumi di olio certificato prodotto nel 2009 rispetto al 2008, il disastro della Toscana (-30%) e quello consistente della Sabina (solo la Puglia è in controtendenza con un + 10% e non solo nelle discussioni bloggeriste). C’è la constatazione, come ricorda Silvano Ferri, Presidente di Federdop, che l’olio buono è un’opera d’arte che costa sudore, sacrificio ma anche, e soprattutto, remissione economica. C’è l’italian sounding, la iattura della contraffazione ai danni dei prodotti agroalimentari italiani che, secondo una recente stima della Confederazione Italiana Agricoltura, rappresenta un business da 50 miliardi di euro, pari alla metà dell’intero fatturato agroalimentare italiano. Soldi soffiati all’Italia e danni all’immagine del made in Italy.
Ma questo è un giorno di festa. E’ la vigilia dell’arrivo di un nuovo nato nella casa degli oli Dop, il Colline dell’Ufita (Avellino), atteso ufficialmente per l’indomani e mancano pochi giorni all’inizio delle preselezioni che culmineranno nella premiazione del 27 febbraio, al Teatro Tasso di Sorrento, quando tre oli saliranno sul punto più alto del podio. Tre premiati quante sono le categorie previste: il fruttato lieve, il moderato e l’intenso.
Due dei tre vincitori dell’edizione 2009, i produttori dell’Oliveto Matarazzo della Dop Tuscia e dell’Olio Toniolli della Dop Garda, fortunato fornitore, quest’ultimo, della Pergola dell’Hilton di Roma, si aggirano festosi distribuendo sorrisi, bottigline e speranza nell’avvenire. Un cultore della materia, disincantato sulle cose del mondo ma pronto alla lacrima quando si parla di olio e all’outing quando dichiara: “L’olio è la mia debolezza!”, nasconde a fatica il suo disappunto per la dichiarazione della signora sui potenziali pericoli del frantoio e intanto schiocca la lingua degustando il suo nettare preferito.
Passione a go-go, insomma. A far difetto, par di capire ai meno addentro alla materia, è la capacità dei consumatori, soprattutto all’estero, di orientarsi nel mare magnum dell’offerta alimentare e di distinguere un Parmigiano Reggiano da un Parma Ham, un Gorgonzola da un Combozola, un olio Dop da un olio qualsiasi o peggio. “Colpa anche della comunicazione”, spiega Silvano Ferri, “dell’incapacità dei produttori di olio di trasmettere un’ emozione, di stimolare sentimenti nascosti come l’identificazione con una regione o con quel mondo contadino che è il passato recente di tanti italiani”. Colpa, senza dubbio, anche della crisi economica che allontana inesorabilmente la massaia dai prodotti di qualità per impellenti ragioni di budget. Colpa, immancabilmente, di una globalizzazione mal governata e di uno stato che fa fatica a proteggere i suoi gioielli dall’attacco dell’Asiago del Wisconsin e del Danish Grana. Sul banco degli imputati finiscono anche la Grande distribuzione che “comprime l’olio d’oliva di qualità sottoponendolo a forti spinte competitive” da parte di oli decisamente più andanti, come ha spiegato Gianfranco Nappi, Assessore all’Agricoltura della Regione Campania. Una condanna pesa anche sul mondo della ristorazione. La moderatrice del dibattito, Anna Scafuri (Rai – TG1 Economia – Terra & Sapori) ricorda a questo proposito un episodio di malaristorazione accadutole di recente nel profondo Nord italiano: l’olio portato a tavola nell’oliera, anonimo e poco rispettoso del diritto d’autore, con cui accompagnare un pane, lui sì, strepitoso.
Ci si consola con il Rapporto 2009 sulle produzioni agroalimentari italiane Dop, Igp, Stg dell’Osservatorio Qualivita che ci vede primi in classifica in Europa per i prodotti a marchio certificato:194, pari al 21 % del totale. Tra questi figurano i 37 oli Dop, decisamente più numerosi dei 25 spagnoli e dei15 greci. Un primato nel primato.
Che però contiene in se qualche rischio, come avverte Marisa Latorre dell’Ispettorato Repressione Frodi Alimentari del Ministero delle Politiche Agricole. Primo fra tutti la banalizzazione: “Troppe denominazioni possono diventare dannose per il sistema”. Dopo il pistacchio di Bronte, penultima denominazione strappata all’Europa e dopo l’olio Dop Colline dell’Ufita, per i quali sono appena scaduti i sei mesi utili per un possibile ricorso, chi fermerà la valanga delle denominazioni? Nella patria dei prodotti legati al territorio, la tipicità è una merce che non scarseggia. Una fortuna, in tempi di declino del sistema paese. Ora il tema è: ma la piena va davvero arginata?