Dietro le quinte del Don Alfonso. Cronaca di una riapertura
Ernesto Iaccarino, primo vice presidente internazionale dei Jeunes Restaurateurs d’Europe, ci svela i segreti del giorno di riavvio delle macchine del ristorante che ha rivoluzionato la tavola partendo dall’estrema punta della Campania nel lontano 1973. E dopo 25 anni di stella, Alfonso Iaccarino fa un salto a ritroso nel tempo per ripercorrere quasi 40 anni di storia gastronomica
Sant’Agata Sui Due Golfi. Primavera, stagione di riaperture. Meccanismi che si rimettono in moto, sapori che ti riconquistano, nuove idee che si mescolano a piatti irrinunciabili. Non è proprio come girare la chiave di un’auto. Anzi sì, se è quella preziosa, d’epoca, che ti trasmette sensazioni e non ti scarrozza semplicemente dal punto A al punto B. Ecco, il vero ristorante ti da il piacere di stare a tavola come una bella macchina ti da il piacere di guidare. Un viaggio e un percorso tutto da assaporare. Oggi vedrai cosa significa riaprire. Francesco è ancora inebriato dal sapore della pizza di Enzo Coccia e dai colori della Costiera Cilentana e di quella Amalfitana e ora si appresta a perdersi tra le curve del Nastro d’Oro mentre un torrente di ricordi miei, di luoghi e situazioni gli si riversa addosso. Andiamo da chi mi ha svezzato facendomi comprendere la differenza tra cucinare bene e cucinare meglio. Che per me è uguale a mangiare bene e mangiare meglio. “L’idea del più fresco non ti abbandonerà mai più”, sorride il fotografo. Già, ma quando Alfonso aprì Massimo Bottura aveva i calzoni corti, come me. Le curve su all’eliporto sono sempre quelle che mi ricordano che a Sant’Agata Sui Due Golfi fa fresco, anche in pieno agosto.
“Vuoi venire il giorno che apriamo? Ci sarà un po’ di confusione per i preparativi”, aveva sottolineato Livia al telefono mentre da Roma andavo verso Acciaroli. Il primo giorno di scuola è divertente, promettiamo di renderci invisibili. L’ora è tarda, complice il traffico da galleria di Vico chiusa. Alfonso è a Scampia per un incontro con giovani studenti. Livia è alla ricerca degli ultimi particolari da sistemare. Ernesto controlla che la cucina con la brigata salga di giri, mentre Mario ha il suo da fare con la cantina. “Come stai?”, la voce di Livia mi giunge mentre sto spiegando a Francesco in quale oasi sia stato catapultato. E’ quasi l’una e i ragazzi di Ernesto si muovono tra la cucina e i laboratori. I nuovi arrivati seguono con attenzione i “più vecchi” in un movimento ancora tranquillo che con il trascorrere del tempo si farà sempre più frenetico. Si apre per cena, ore 20, e senza molto clamore. Ma arrivano i primi ospiti, dal Veneto un imprenditore con amici al seguito. Francesco guarda i palcoscenici del Don Alfonso 1890 che è ristorante, ma anche relais, scuola di cucina, show room, biblioteca, cantina, azienda agricola e pizzeria. Il tutto con un giardino a suturare spazi che affascinerebbero anche il più distratto dei visitatori. Oggi ci limitiamo alla zona delle operazioni: cucina e laboratorio. Partono le prime raffiche dalla Canon in una giornata che permetterà a scattidigusto di mettere nel carniere più di 1000 foto!
Nel laboratorio si preparano i cappelli di pasta farciti di pollo biologico alla genovese con fonduta di parmigiano e verdure croccanti. Ernesto si avvicina ad Antonio Capoccello e mi spiega la cura che il Don Alfonso mette nelle preparazioni. La “bicicletta” percorre le sfoglie tirate a mano per tagliare i quadrati che accoglieranno la farcia. Movimenti ripetuti ma non ripetitivi. Nel laboratorio si preparano anche i ravioli di pasta fresca “bianca” ripieni di caciotta ed origano con pomodorini del piennolo e basilico. Guardare le preparazioni mi fa venire fame in anticipo.
Matteo Pompei e Andrea Del Campo intanto preparano i cannoli della piccola pasticceria e il pane verde agli spinaci. C’è sempre da rimanere stupiti di alcuni lavori certosini che vengono svolti nelle cucine dei ristoranti italiani. Avvolgere i quadratini che formeranno i minuscoli cannoli e scartare quelli che non restano attaccati al cilindretto durante la fase di cottura nell’olio testimoniano la passione artigianale. E dovrebbero ricordare a quanti si accingono a pestare i tasti di un computer che dietro a un piccolo boccone c’è spesso moltissimo lavoro.
La brigata di avvio conta 13 ragazzi che coadiuvano Ernesto Iaccarino e le cui facce parlano della Campania e di altre regioni. Claudio, il secondo di Ernesto, segue tutti. L’elemento che li accomuna in queste ore è la forte motivazione di arrivare al primo appuntamento della stagione in perfetta forma. Ed eccolo Alfonso di ritorno dall’incontro con gli alunni di una scuola di Scampia (“Emozionato tanto da piangere”). “Vincè, sono contento che sia qui”. Nonostante l’intermezzo delle 12 e passa dopo lo sfiancamento da fila stradale, mi lascio convincere da Livia: “Caliamo due spaghetti che c’è Alfonso e qualche ospite”. Ecco la grande cucina della tradizione con il più semplice e conosciuto dei piatti del Golfo di Napoli preparati da Ernesto, primo vicepresidente internazionale dei Jeunes Restaurateurs d’Europe, non so se mi spiego. Il Sabaudo a momenti mi si accartoccia sulla poltrona mentre io e Alfonso scambiamo qualche parola. “Sono spaghetti?” Non li vedi? “Con il pomodoro?” Ma ti stai rimbambendo, piennolo di Casa Barone e tanta maestria. Mi rendo conto che queste scoperte devono portare a pensare ‘ ma io, negli ultimi 25 anni, cosa ho mangiato’. Chiudiamo il pasto frugale con un concerto al limone (sbeng, la solita sberla di sapore in diretta dal limoneto di Punta Campanella) e il caffè.
In cucina, cresce la tensione, i movimenti di tutti diventano più rapidi. Il Don Alfonso si sta risvegliando e lo fa con scioltezza. Tutti sono impegnati in una preparazione con un lavoro che è a tratti solitario per diventare corale o di confronto e consiglio con Ernesto. Lascio girare solo Francesco tra le postazioni non scritte per infastidire il meno possibile. Lo spettacolo lo guardo dalle finestre e dal banco. Spicca tra tutti Valeria Martinuzzi, l’unica donna della brigata che come gli altri cambia lavorazione. Non è una catena. E’ un percorso anche questo. Diego De Rosa, trevigiano di ritorno in terra natale, ora apre le cozze nel laboratorio poi riappare in cucina a curare la cottura delle verdure o a discutere con Michele Martino. La richiesta finale “Chef” indirizzata ad Ernesto si farà via via più pressante.
Livia, allora ti sei riposata un bel po’ da novembre fino ad ora. “Non so, dopo che abbiamo chiuso il 3 novembre, il 21 ero in Cina a Macao con Ernesto (al ristorante nell’Hotel Grand Lisboa – ndr) mentre Mario e Alfonso volavano a Marrakech (a L’Italien, il ristorante della settecentesca residenza La Mamounia che si affianca a quello francese e al marocchino – ndr). Poi siamo ritornati a casa per Natale, ma il 31 dicembre ero di nuovo in Marocco e il 3 gennaio è arrivato Ernesto. Il 29 gennaio ricordo l’Auditorium a Ravello e quindi un intermezzo di noi 5 sorelle che ci siamo ritrovate per il compleanno di quella che abita a New York. E poi un impegno dietro l’altro per arrivare all’apertura di oggi. Il 28 febbraio abbiamo chiuso la consulenza con il Baby a Roma. Insomma non ci siamo fermati un attimo e ancora stamattina c’era qualche particolare da mettere a punto”.
Ernesto non ha ancora dato il macchine avanti tutta, ma la cucina cammina sempre più rapida e si riempie di profumi. Ma il menu è lo stesso? “Sì partiamo con il menu di chiusura e apportiamo i primi cambiamenti di stagione, ad esempio con i carciofi che vanno ad accompagnare la faraona farcita di fegato d’oca”. Nessuno scossone. I commensali da Don Alfonso possono contare su movimenti percettibili ma senza fughe in avanti. “Abbiamo previsto il soffiato di mozzarella, o meglio di fiordilatte, con una rugiada di bufala e il croccante di basilico”. Già, il croccante più croccante che mi ha colpito subito all’assaggio in diretta. Molto più basilico. “Abbiamo 30 idee di piatti nuovi da verificare e poi proporre quelli che riterremo validi”. Il Don Alfonso continua la sua tradizione. Mi viene in mente l’esempio della Porsche 911: il vestito appare da quasi 50 anni sempre uguale a se stesso. Ma sotto la pelle c’è una sostanza che si trasforma e migliora, anno dopo anno. Un vino che invecchia benissimo. Ma che differenza c’è tra gli spaghetti al pomodoro, tipici che di più non si potrebbe, e la faraona che lo è certamente di meno? “Innanzitutto, occorre sgomberare il campo da un equivoco: non è possibile pensare che in un ristorante non si possa servire un piatto perché quella materia prima non è agganciata con forza al territorio. Qui in Costiera dovremmo dire addio alla prussiana, tanto per dirne una o comunque alla carne bovina. La differenza tra due piatti è data dalla complessità di esecuzione. La faraona necessita di tre passaggi di cottura. E’ un altro indice che distingue il ristorante dalla trattoria che potrà proporre piatti buoni ma non articolati. La cucina è un fatto complesso”. Altre differenze con l’anno scorso? “E’ il primo senza operai dopo 10 anni di migliorie. Oggi l’unica attenzione è fare felici i clienti con la cucina”.
La qualità delle materie prime, la fantasia, la tecnica. Se sono le tre caratteristiche che indica Ernesto, prendo anche la parte di ricerca che si sta sviluppando tra cucina e scuola. Quella che fa attenzione ai colori. Al Don Alfonso c’è un caleidoscopio. Merito anche della auto-produzione di Punta Campanella che assecondando i tempi e i modi della natura riesce nell’intento di restituire consistenze e tonalità. Io mi sono perso in questo percorso di verde e di viola che spinge ad annusare e a provare di immaginare i sapori. Ecco, forse è possibile trasmettere da uno schermo l’idea di un cibo attraverso i suoi colori. Come in queste foto.
Mario, spero non me ne vorrà, l’ho sempre accostato a un gatto. Sornione e pronto a dare la zampata con la sua stratosferica cantina. Lo confesso, non sono il suo cliente tipo, io e la mia acqua frizzante, ma la cantina del Don Alfonso sembra fatta per stupire. Mario è anche uomo d’ordine ed è lui che batte il tempo alla brigata e alla sala per l’uscita dei 20 e passa piatti di prova che costituiscono il banco del primo giorno. E la mia personale perdizione vicino al passa vivande. A Mario strappo il tempo di uno scatto e la semplice domanda dell’avventore che potrà vedere la cantina anche 10 volte e continuerà a chiedersi quante bottiglie sono custodite nel caveau del gusto. “25 mila, come al solito”.
Dei piatti ho promesso di non pubblicare foto perché sono work in progress e questo anche se un comune mortale, checché gastrofanatico, forse non si accorgerà della percentuale infinitesimale di acqua rilasciata dal mitico Vesuvio di rigatoni. Che buono, come il risotto con il leprotto di cacciagione di Alfonso, i cappelli di pasta farcita di pollo alla genovese, l’anatra, il coniglio con gli asparagi, la tempura di finocchio, la cernia con sentore e sapore di vaniglia, l’astice e il goduriosissimo calamaretto con crema di piselli. Assaggio per più di un’ora scucchiaiando le prove che il personale di sala descrive guidato dal secondo, Claudio Favero.
Come fai con Alfonso, nel salottino della biblioteca, a non andare indietro nel tempo? “Ho aperto nel 1973 e ho cambiato impostazione nel 1982 perdendo un bel po’ di clienti”. Ricordo anche io le ruote di carro appese sotto il portico e la sua fama di ristorante buono ma un po’ caro. Subito ben frequentato. Alfonso ha le idee chiare, vuole aprire un ristorante e lo dice al padre che è albergatore (Tramontano, Hermitage e Iaccarino). Non è che la decisione sia accolta benissimo, ma il poco più che diciottenne Alfonso riesce a intestarsi la licenza dell’hotel e a partire insieme ai due che gli daranno una mano Il muratore Carminuccio, che diventerà pizzaiolo, e Aniello poi promosso cuoco. “Mi daranno una mano a costruire il Don Alfonso e io gli dico che i primi soldi saranno i loro. E’ il 5 febbraio del 1973. Il 23 luglio ho 60 coperti e gli spaghetti Don Alfonso, quelli che abbiamo mangiato a pranzo, preparati da Aniello cuoco per caso”. Un successo che consente ad Alfonso di iniziare ad abbattere i debiti (e sotto la scure finisce anche l’Alfetta che gli aveva regalato il padre). “Andavo a Manfredonia per prendere il pesce e l’olio nel ’75 veniva da Torca, abbasc’ ‘e peracciol’, il toponimo che diventerà il nome dell’azienda agricola di Punta Campanella: primo pezzo di circa 6 ettari acquistato nel ’90, ultimo, la parte scoscesa, affittando un pulmino per condurre i 28 proprietari dal notaio”.
Ma come nasce il desiderio di cambiare veste e, in fondo, anche clienti?
“Accade nell’82. Era saltata la caldaia in cucina e mi ero salvato perché ero uscito a fumare. Avevo fatto le mie esperienze. Cantarelli, Marchesi, Santin. E poi era successo che alle 2 di notte mi avevano tirato giù dal letto perché un personaggio importante della Sant’Agata del tempo voleva mangiare con 30 amici e si erano fatte le 6 del mattino. Finite le scorte della cucina, il conto era 800 mila lire. Il personaggio in questione mi disse che andavano bene 400 mila che mi infilo nel taschino. Gliele diedi dicendo che andava bene niente ma che non si doveva far più vedere. Il giorno dopo venne un suo amico per saldare il conto, ma il dado era tratto. Il Don Alfonso cambiava stile e registro”.
E ora la chiusura invernale.
” Sì sono 3-4 anni che chiudiamo per un periodo più lungo. L’impresa non potrebbe reggere e noi con lei”.
Ma come si riavvia il Don Alfonso?
“Curando i particolari tantissimo, dal giardino alla cantina all’assetto del personale”.
Dopo tanti anni, ormai il ristorante sarà un’abitudine.
“Dopo 25 anni di stella forse è venuta meno l’emotività della gioventù sostituita dall’esperienza e non mi scompongo più di tanto. Certo la prima volta, l’apertura nel ’73 del Don Alfonso è un’emozione indimenticabile”.
Come è cambiata la ristorazione italiana in questi 40 anni?
“Molto dobbiamo a Gualtiero Marchesi che ha portato lo stile francese e ha aggiunto il suo carattere. Noi abbiamo cambiato la cucina del tanto pomodoro e abbiamo, ad esempio, rivitalizzato il pacchero che era ormai su un binario morto. Poi ci sono stati gli accoppiamenti di pesce e verdura in una zona come la nostra i cui piatti tipici eran gnocchi e cannelloni, al massimo spaghetti con frutti di mare. Sono questi gli anni che fanno conoscere il Don Alfonso. Poi ci sono le cotture che sono fondamentali. La verdura era cottissima ora si prepara a bassa temperatura e c’è la frittura alla maniera giapponese”.
I piatti simbolo dei decenni trascorsi?
“Linguine vongole e zucchine negli anni ’80, il Vesuvio di rigatoni negli anni ’90, i calamaretti ripieni negli anni duemila e il soffiato di mozzarella per l’inizio di questo decennio”.
Il tuo piatto preferito?
“Lumache con il peperoncino e lo stoccafisso con salsa di prezzemolo, aglio e peperoncino”.
Il piatto realizzato da Ernesto e la performance di Mario?
“Ernesto era a Milano e mi invitò a pranzo. Fece una strepitosa pasta e patate e lì compresi il suo istinto naturale ma anche la sua tecnica e il suo essere meticoloso. Mario è sempre molto organizzativo e ha ricevuto quest’anno complimenti a tutto spiano a Marrakech”.
E un piatto proposto da Ernesto al ristorante?
“La cernia alla vaniglia per la sua cottura”.
A novembre al Don Alfonso sono arrivati blogger da mezzo mondo.
“I blog saranno il futuro dell’informazione per quanto riguarda i ristoranti, penso ci siano pochi dubbi. Forse occorrerebbe una migliore regolamentazione o comunque una preparazione: non è che tutti quelli che guidano una macchina sono in grado di salire su una Formula 1. Invece tutti si sentono in dovere di criticare e per me che da 40 anni faccio questo mestiere a volte è demoralizzante. Io ho dubbi quando sono in una giuria. Pensa giudicare in due riprese 8 ragazzi e poi altri 8, Sarebbe più logico sentire tutti e poi esprimere un giudizio”.
Da Ovest ad Est, come va Macao? Come funziona il Don Alfonso così lontano da casa?
“Bene, penso che siamo il ristorante italiano più importante dell’Estremo Oriente. Lì abbiamo a che fare con le grandi famiglie di Hong Kong che identificano la ristorazione europea con un gusto francese. Noi abbiamo proposto uno stile mediterraneo con prodotti di prima qualità che arrivano dall’Europa ma anche dalla Nuova Zelanda, dal Giappone. Poi abbiamo dovuto affrontare l’abitudine a mangiare da un piatto unico”.
E come avete risolto?
“Facciamo vedere il piatto e poi lo dividiamo per i commensali e così siamo riusciti a proporre una carta quasi uguale”.
Il tempo stringe. Bisogna rientrare su Roma. “Come non vi fermate a cena?” Con circa 20 assaggi all’attivo non penso di patire la fame per le prossime 12 ore. E poi vorrei venire con la carta che cambia e il tempo splendido per scattare qualche foto a Punta Campanella. Appuntamento alla prossima mentre in sala sono già avanti con i piatti. Si sorride. Il Don Alfonso ha riaperto i battenti per la gioia dei gastrofanatici in transito sulle strade costiere della Campania. Saluti. Mario entra e avverte: “C’è una signora che festeggia il compleanno. La facciamo una torta?” Nessun problema. La torta sarà pronta a breve per festeggiare. Auguri e 100 anni di questi piatti che hanno segnato la storia della ristorazione.
Da sinistra verso destra, dall’alto, Luca Ceriani (Varese), Aldo Romano (Nocera Superiore), Diego De Rosa (Conegliano – Napoli), Nicola Pignatelli (Avellino), Matteo Pompei (Fermo), Alfonso D’Auria (Pimonte), Antonio Capoccello (Lecce), Carmine Buonanno (Moiano), Andrea Del Campo (Alessandria), Michele Martino (Modugno), Valeria Martinuzzi (Sacile), Luigi Di Riso (S. Antonio Abate).
Don Alfonso 1890. Corso Sant’Agata 11 – Sant’Agata Sui Due Golfi (Napoli). Tel. +39 081.8780026 www.donalfonso.com
Foto: Francesco Arena